La musica che gira intorno/ 25

In Musica

Dal rock al folk, dall’indie al jazz, dalla classica al blues le buone note della settimana secondo Cultweek

George Harrison – Got my mind set on you/ Here comes the sun/ All those years ago
I Beatles sono l’evidenza, a quasi cinquant’anni dalla fine dell’avventura, che in molti casi la somma è superiore all’addizione delle parti. Chi era il fulcro della band? Tra Lennon e McCartney non saprei scegliere, troppo velleitario a volte il primo (ma avercene di Tomorrow never knows e I’m the walrus), troppo accomodante a volte il secondo (ma avercene di Eleanor Rigby e Penny Lane). Io, poi, ho una predilezione per i brutti anatroccoli e trovo che andrebbe riscoperto Ringo Starr. Tutti a dire che meglio Ginger Baker o Charlie Watts o altri, provate a immaginare il sound dei Beatles senza di lui, provate a immaginare With a little help from my friends diversa dal suo canto nasale (no, Joe Cocker non conta). Tutto questo per arrivare a George Harrison, il più appartato dei quattro (nelle ferree regole della Beatles Inc. il 90% delle composizioni era Lennon-McCarney, il 9% Harrison, l’1% Starr), il grande stilista della chitarra. Il più spirituale e il più concreto dei quattro, il più pronto a imbracciare il sitar e a seguire il guru di turno e insieme il più insofferente alla pressione fiscale (Taxman, in Revolver, è opera sua). Ora lo celebrano in una Vinyl collection (***1/2) di 14 lp, tutti i suoi dischi più due di inediti live. Che dire? Che forse è il caso di farsi l’idea delle sue discese ardite e delle sue risalite, dei capolavori (il triplo All things must pass, ****1/2, del 1970) e delle molte cose così, dalle sperimentazioni elettroniche agli esiti più fiacchi.

Fabrizio Moro – Pace
È possibile che l’autofiction, più che Emmanuel Carrère o il gran maestro Philip Roth, sia Fabrizio Moro, vite mediocri per rendiconti mediocri, le nostre per carità, che tendono al “sincero”, in qualche modo all’assoluto, al sublime buono per tutti, al m’illumino di melenso. Anche a non aver voglia di scagliare le pietre, di fronte a versi come quelli di Pace l’irritazione monta. “Tolgo gli occhiali da sole per guardare il sole/ butto un pacchetto di Marlboro e per l’ennesima volta/ mi ripeto che mai più le fumerò./ I turbamenti sul futuro si appiattiscono al guinzaglio/ che ora stringo forte/ Ho programmato la mia dieta e gli impegni/ che da domani avrò/ Faccio la spesa dentro a un centro commerciale/ mentre osservo la bellezza mi ripeto/ dovrei approfondire quello che non so”.
Bene, siamo ai non-luoghi comuni. Fabrizio Moro poi, maschietto vittimista e nipotino di una tradizione rigogliosa, spiega che “a volte non si spiega mai l’essenza della vita” (dimenticavo, lui è un uomo che ama e poi rinnega) e “per sentirla basta nient’altro, nient’altro che una sega”. È una vita che i maschi frustrati se va bene si fanno una sega, se va male uccidono l’oggetto del loro amore. E saranno solo canzonette, ma non mi sento di assolvere neppure i portatori sani di sciocchezze, l’unica cosa curiosa qui è che Moro sembra l’anello mancante fra Battiato e Cutugno. Quindi mi dimentico il trionfo sanremese di dieci anni fa, accantono i discorsi sulla “professionalità” (si, canta bene, ha buoni arrangiamenti, è un “buon prodotto”) e voto **.

Julie Byrne – Sleepwalker/ Natural blue/ I live now as a singer
Originaria di Buffalo, per anni vagabonda negli States (Chicago, New Orleans, Seattle), ora stabile a New York (vive nel Queens, fa il ranger al Central Park), la fascinosa Julie Byrne di Not even happiness, ***1/2, voce ipnotica e chitarrismo fingerstyle impreziosito da pochi e misurati interventi orchestrali, ricorda ai critici la giovanissima Joni Mitchell, ma anche la Cat Power degli esordi, qualcuno azzarda Vashta Bunyan, Anne Briggs e Karen Dalton. Dovendo scegliere un ispiratore per questa quieta introversione, sceglierei Nick Drake. Un disco autunnale per questa primavera in boccio.

Laura Marling – Soothing/ Don’t pass me by/ Nothing, not nearly
Sesto album di studio in dieci anni per la biondissima e talentuosa Laura Marling, inglese di Eversley nello Hampshire, 27 anni. Dall’alt-folk degli esordi, Semper femina (****), registrato a Los Angeles e prodotto con sapienza da Blake Mills, sposta il tiro verso un cantautorato di grande varietà e sofisticazione (echi soul, pigre movenze jazz, brezze caraibiche, gemiti elettrici) per parlare di come le donne vedono se stesse, di come le materiano gli uomini.

Beatles – With a little help from my friends/ She’s leaving home/ Being for the benefit of Mr. Kite!/ A day in the life
Conto alla rovescia per l’anniversario degli anniversari: il prossimo 1° giugno l’album rock più celebre e celebrato di sempre, Sgt. Pepper’s lonely heart club band (*****), compie cinquant’anni. I Beatles trascorsero 400 ore negli Abbey Road Studios, dal novembre 1966 all’aprile 1967, per realizzarlo, facendolo precedere il 21 aprile dal 45 giri Strawberry fields forever/ Penny Lane. Avevano a disposizione un registratore a quattro piste, tecnologia primordiale rispetto a oggi, una library di effetti sonori utilizzati fino a quel momento soprattutto per i documentari, e un produttore di genio, George Martin. Con loro e con lui, il rock cambiò per sempre, aggiungendo all’energia grezza dei concerti (ma i Beatles avevano già smesso) la sofisticazione della ricerca da studio: nastri accelerati o rallentati, loop, aggiunta di strumenti insoliti per il rock, orchestre che tenevano una nota sola, bande militari, sitar, violini e trombe. Con musiche che spaziavano dal rock teso agli influssi indiani, dalla psichedelia al vaudeville. Per l’anniversario, sono stati approntati un nuovo mix e ben quattro edizioni dell’album, accompagnate da un libro di 144 pagine che ne ricostruisce genesi, storia e contesto: standard (un cd), deluxe e deluxe vinile (2 cd o due Lp con gli alternate takes di tutte le canzoni e del 45 giri) e superdeluxe (4 cd con 33 registrazioni inedite, più un dvd e un blu-ray con il documentario del 1992 The making of Sgt. Pepper, finora inedito).



Teresa De Sio – Je’ so pazza/ Fatte ‘na pizza/ Napule è
Teresa De Sio, dopo cinque anni di silenzio discografico, torna con Teresa canta Pino (***1/2), omaggio a Pino Daniele in sedici canzoni. Avevano esordito più o meno negli stessi anni, Teresa e Pino, la fine dei ’70: Teresa con Musicanova di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò, Pino come bassista dei Napoli Centrale. Si erano incontrati per la prima volta nel 1980, quando lui, già lanciato dall’album Nero a metà, le regalò Nanninella per il disco di esordio Sulla terra sulla luna. Da allora, fino alla morte di lui nel 2015, sono rimasti amici e qualche volta hanno suonato assieme. Nel suo omaggio, Teresa De Sio non trascura le composizioni più funky e fusion (‘O scarrafone, Bella ‘mbriana), ma privilegia le ballad più classiche, accentuandone la vena folk-rock.


The Brian Jonestown Massacre – Open minds now closed/ Resist much obey little/ Charmed I’m sure
Sedicesimo album, il secondo in quattro mesi, per i californiani The Brian Jonestown Massacre (il nome fonde assieme Brian Jones, nume tutelare dei primi Rolling Stones morto annegato in piscina, e il suicidio collettivo di Jonestown). Alfieri di una neopsichedelia dalla forte vena sperimentale, la band del carismatico Anton Newcombe, che ha da poco approntato uno studio di registrazione a Berlino, con Don’t get lost (***1/2) rompe gli ormeggi della forma-canzone. E si lancia in folate noisy, in pesanti cavalcate dark in cui il lascito del kraut rock è evidente, in incursioni trash che inglobano suggestioni surf e western. Bello, non per tutte le orecchie.

The Magnetic Fields – A cat called Dyonisus/ How I failed ethics/ Me and Fred and Dave and Ted
The Magnetic Fields è una band indie-pop americana il cui nome deriva da un romanzo surrealista di André Breton e Philippe Soupault. Ci siamo, tutto chiaro? In realtà The Magnetic Fields, più che una band, è l’estensione di Stephen/Stephin Merritt, bostoniano, classe 1965, autore di tutte le canzoni, nonché multistrumentista (almeno chitarra, ukulele, pianoforte e tastiere) e cantante della band. Votato a imprese ambiziose, Merritt-The Magnetic Fields ha realizzato almeno un capolavoro riconosciuto, 69 love songs del 1999. Ora replica con l’imponente 50 song memoir (****1/2), cinque cd fatti apposta per dare i numeri: 50 canzoni, una per anno, per i cinquant’anni di Merritt, che per l’occasione suona cento strumenti (dal vivo, le canzoni sono eseguite da una band di sette musicisti, ciascuno dei quali suona sette strumenti). Belle canzoni, di melodia evidente e lineare e con testi autobiografici, a volte un po’ intellettualistici, non di rado aguzzi. C’è altro? Ah sì, Merritt ha avuto anche altre band: 6ths, Gothic Archies, Future Bible Heroes. E ha un’altra band, The Three Terrors, con cui suona pop francese e musica da film (anche la colonna sonora di Gola profonda, anche quella di Coraline). E poi? Ah sì, a voler spigolare nella vita privata, Merritt si dichiara ateo, gay e vegano («Non ho più mangiato un animale dal 1983») e contende a Bob Mould la fama del più scorbutico, forse del più depresso, del reame.

Roberto Bonati – Tacea la notte placida/ Can vei la lauzeta
Nato a Parma nel 1959, Roberto Bonati è un musicista di vasta esperienza: contrabbassista, compositore e direttore d’orchestra, collaboratore di jazzisti fra i nostri massimi (Giorgio Gaslini, oggi Gianluigi Trovesi), animatore di festival (ParmaFrontiere dal 1996), docente di jazz al locale conservatorio e molto altro ancora. Al molto altro ancora rimanda il suggestivo Nor sea, nor land, nor salty waves. A nordic story (****), purtroppo non ascoltabile né su Spotify né su YouTube, ma acquistabile su Amazon. A una collaborazione con i norvegesi della Bjergsted Jazz Ensemble e con l’università di Stavenger che hanno commissionato questo lavoro. Una rilettura delle saghe mitologiche norrene, in particolare della Profezia della veggente, il primo poema dell’Edda che narra la creazione del mondo e la sua fine. Autore delle musiche, Bonati dirige anche i diciannove elementi del Bjergsted Jazz Ensemble. Qui sotto, un piccolo saggio della sua maestria versatile.

Franco Fagioli – Pien di contento in seno/Vieni, tuo sposo e amante di Gioacchino Rossini
Strepitoso questo Rossini (*****), in cui il controtenore argentino Franco Fagioli affronta, accompagnato da un ensemble barocco di quaranta elementi (Armonia Atenea, direttore George Petrou) arie del musicista pesarese. Relativamente poco note le opere, tranne Semiramide (Demetrio e Polibio, Matilde di Shabran, Adelaide di Borgogna, Tancredi, Eduardo e Cristina), formidabile nella tecnica e nella dizione la voce di Fagioli, finora noto soprattutto come interprete di musiche barocche. Da non perdere.

IL RECUPERO:
Georgie Fame – Yeh, yeh!/ Saturday night fish fry/ The ballad of Bonnie and Clyde/ Jumpin’ with Symphony Syd
Nato Clive Powell a Leigh nel 1943, cantante organista e chitarrista della covata degli Jagger e Burdon, dei Van Morrison (con cui collaborerà a lungo a partire dagli anni ’80) e dei Mayall, ragazzi inglesi innamorati del blues e del jazz ballabile, del soul e del funk, delle mille musiche nere insomma, Georgie Fame negli anni ’60 è una piccola star con i suoi Blue Flames: Yeh, yeh! nel 1964, Get away nel 1966 e soprattutto The ballad of Bonnie and Clyde nel 1967 vanno nelle zone alte delle classifiche (quest’ultima anche da noi). Poi un’onesta carriera sempre più screziata di jazz. L’anno scorso i sixties di Georgie Fame hanno ricevuto l’omaggio di un box di cinque cd, The whole world’s shaking (****). Stavolta, con Survival (****1/2) , 6 cd della Umc/Universal, è l’intera carriera a essere passata al setaccio: 110 canzoni, 18 inediti, molte belle interpretazioni per chi ama il pop che si aggira nei dintorni del jazz. Bellissima, ma non è l’unica, Jumpin’ with Symphony Syd. Era di Lester Young detto President, il mite e stralunato sassofonista di Billie Holiday, e scusate se è poco.



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