La musica che gira intorno/18

In Musica

Il ritorno della grande Marianne Faithfull, il talento (e l’energia dirompente) del giovane Marcus King, l’impresa titanica di Ivo Perelman e altro ancora

La La land – City of stars/ City of stars (Humming)
“Non amo che le rose che non colsi”, chi lo diceva, D’Annunzio? Si prova simpatia per Mia e Sebastian, aspirante attrice e aspirante jazzista e proprietario di locale, che in La La land coroneranno i loro sogni ma non il loro amore. Il “musical informale” di Damian Chazelle, specialista di storie in musica (suoWhiplash) ha fatto il pieno di premi e nomination (la Coppa Volpi per la deliziosa Emma Stone, sette Golden Globe, 14 nomination agli Oscar, come prima soltanto Eva contro Eva e Titanic) e molto probabilmente vincerà. Ma la colonna sonora (**1/2) era proprio necessaria? Perché i bravi Gosling e Stone a cantare, proprio, gna fanno.

 

The Flaming Lips – Oczy mlody/ Almost home (Blisko domu)
Dunque, dal vivo ci sono unicorni con la coda al neon, luci stroboscopiche a formare arcobaleni, coriandoli e palloncini, bolle gigantesche dentro le quali incede con la sua vocetta il cantante Wayne Coyne. Gli show circensi e freak non devono illuderci: i maghi di oz non abitano più qui e nell’ultimo Oczy mlody (***1/2, significa “occhi giovani” e dovrebbe essere la traduzione in polacco di un romanzo di Erskine Caldwell) le fiabe per adulti si intitolano There should be unicorns, e gli unicorni dovrebbero aggirarsi tra folate di suoni robotici, oppure Listening to the frogs with demon eyes o ancora, per chi vuole la fiaba nera, One night while hunting for faeries and witches and wizards to kill. Loro sono i Flaming Lips da Oklahoma City, attivi dal 1983, mai un disco uguale all’altro e chili di trovate e di psichedelia (Coyne adora i Pink Floyd iniziali, quelli di Syd Barrett), di kraut rock, di progressive e di altri oltranzismi rock (di recente dicono di essersi ispirati anche ai Tame Impala). Questo Oczy mlody è meno cupo di The terror, meno leggero di The soft bulletin, al terzo ascolto cresce senza annoiare.

 

Michael Chapman – Memphis in winter/ Falling from grace
Recuperare un vecchio artista la cui fama si era appannata, o del quale circolava una vulgata bisognosa di essere rinfrescata, è diventata negli ultimi anni operazione frequente. Da quando, almeno, Rick Rubin regalò gli ultimi fulgori a carriere leggendarie come quelle di Johnny Cash e Neil Diamond, producendoli in album scarni e intensi, quasi distillati della loro arte. L’operazione si ripete, auspice il giovane chitarrista e cantautore di Brooklyn Steve Gunn, con una vecchia gloria inglese, Michael Chapman, 76 anni appena compiuti. Esordio nel circuito folk di Londra con partner illustri come John Martyn, Roy Harper e Mick Ronson, produttori giusti che curavano anche Elton John e gli Steeleye Span, la sua carriera è però sempre rimasta quella di un artista di nicchia. Ora con l’album “americano” 50 (***1/2), che festeggia mezzo secolo di carriera, Chapman rinfresca con sonorità fra Dylan e la West Coast, gli Appalachi e il blues, il suo vecchio canzoniere, con un pugno di inediti (The prospector, Fully qualified survivor, la delicata Falling from grace) e uno strumentale, Rosh Pina, che pare uscito dalle corde di John Fahey. Se è nostalgia, benvenuta nostalgia.

 

Rachele Colombo/ Miranda Cortes – Mediterraneus/ Aquarium venitien/ Parón perdido
Elegia veneziana e vagabondaggio mediterraneo, l’album ‘ndar(****) vede l’incontro di due musiciste affascinanti, la veneziana Rachele Colombo (suo il bellissimo doppio Cantar Venezia, dedicato alle canzoni da battello settecentesche, che ho recensito un mese fa), cantante chitarrista e compositrice (suona anche altri strumenti: la chitarra battente, il bendir, la darbuka, le percussioni) e la fisarmonicista francese. Assieme a loro, in questa lunga e sinuosa suite che profuma di una possibile world music su quel che si perde e quel che si trova in ogni viaggio, amici di pregio come Gianni Coscia che ho ammirato negli album Ecm con Gianluigi Trovesi, un cantore storico di Venezia come Gualtiero Bertelli, il grande liutista sardo Mauro Palmas compagno di avventura di Elena Ledda, e molti altri ancora. Da scoprire.


 

The Marcus King Band – Plant your corn early/ Thespian espionage
Ventenne di Grenville in South Carolina, cappello lungo e cappellaccio da bandito dei vecchi western, talento ed energia da vendere, bianco con una voce da soulman e una chitarra alla Duane Allman, il ventenne Marcus King, figlio di un cantante di blues, è il nuovo prodigio della scena southern. Per produrgli il secondo album, The Marcus King Band (****), che mescola con istinto sicuro blues, rock e soul, azzardando persino qualche incursione jazz (ascoltare Thespian espionage per credere) si è scomodata un’eminenza grigia come Warren Haynes, grande performer di suo e già alla console per Gov’t Mule e Allman Brothers Band.

 

Shovels & Rope – I know/ Johnny come outside
Lavoro intenso e riflessivo, che non sacrifica all’altare della piacevolezza a tutti i costi per parlare di Alzheimer (Invisible man), di bambini autistici (Johnny come outside), di pazzi armati che provocano stragi (Bwyr). Little seeds (****) degli Shovels & Rope, che sarebbero poi i coniugi Cary Ann Hearst e Michael Trent da Charleston, South Carolina, è il loro terzo album in due anni. Una roots music convincente, senza niente di superfluo.

 

Marianne Faithfull – As tears go by/ Sister morphine/ The ballad of Lucy Jordan
L’inglese Marianne Faithfull è diventata, negli ultimi trent’anni, un’interprete sempre più intensa e raffinata. Figlia di un docente di letteratura italiana al Bedford College della London University e di una baronessa viennese pronipote di Leopold von Sacher-Masoch, emersa nei primi anni ’60 al cinema con Jean-Luc Godard e nella musica pop con As tears go by (in italiano Con le mie lacrime), canzone che scrissero per lei Keith Richards e Mick Jagger di cui fu compagna, sopravvissuta alla tossicodipendenza e all’alcolismo (Sister morphine potrebbe essere una storia autobiografica: la scrisse lei assieme ai due Stones e ci vollero anni di battaglie legali perché anche il suo nome comparisse: il ribelle Jagger diventa squalo quando lo toccano sul soldo), diventata cantante quasi brechtiana, con la voce roca di chi ne ha viste tante, ha visto crescere la popolarità presso un pubblico adulto dalla fine degli ’80. In questo No exit (***1/2), che fissa su disco un recente tour europeo, la accompagna una band giovane e non sempre misuratissima. Memorabile anche The ballad of Lucy Jordan, su una casalinga londinese che sale sul tetto di casa e minaccia di buttarsi giù.


 

Mario Marzi & Achille Succi – Bourée e Invenzione a due voci di Johann Sebastian Bach
Al netto di tutte le ingenuità apologetiche (l’improvvisazione barocca antenata di quella jazz: andiamo!), l’attrazione fatale di molti jazzisti per il genio di Bach è storia lunga e comprovata. Data almeno dal bop (la “fuga” di Charlie Parker in Chasin’ the bird), passando per Lennie Tristano e il Modern Jazz Quartet, lambendo la scena francese (Jacques Loussier e Dan Tepfer) e la nostra musica tra colta e pop (Armando Trovajoli, la Fuga a due voci in do minore di Mina e Severino Gazzelloni), arrivando in anni recenti a Keith Jarrett che esegue le Variazioni Goldberg e a Joshua Redman che si cimenta con l’Adagio (nell’album Walking shadows) e, ultimamente, all’alluvione delle contaminazioni: Paolo Fresu e i Virtuosi Italiani, Ramin Bahrami e Danilo Rea, Nico Gori e Fred Hersch, Mario Brunello e Uri Caine. Si aggiungono all’eletta schiera il sanmarinese Mario Marzi (sax alto, baritono e soprano), che insegna sassofono al Conservatorio Verdi di Milano e collabora da tempo con l’Orchestra della Scala (è stato diretto da Muti, Mehta, Giulini, Maazel, Berio, Pretre e molti altri) e il modenese Achille Succi (sax alto e clarinetto basso), jazzista tra i nostri migliori. Assieme hanno inciso Bach in black (***1/2), cimentandosi con la Suite per violoncello n. 4 BWV 1010, con la Partita per flauto solo BWV 1013 e con le Invenzioni a due voci BWV 777 e 782. Risultato di grande nitore e suggestione.

 

Martha Argerich & Itzhak Perlman – Schumann, Brahms e Bach
Diciotto anni separano la prima e l’ultima registrazione, che aprono e chiudono con la qualità dell’ineffabile questo disco (****1/2). Interpreti di prima grandezza, la pianista Martha Argerich e il violinista Itzhak Perlman si sono sempre poco frequentati, benché abbiano quasi la stessa età: lei è del 1941, lui del 1941. Da un primo incontro del 1998 a Saratoga discende la giovanile e fremente Sonata n. 1 op. 105 di Robert Schumann che li vede dialogare al calor bianco. Più sobria e affettuosa insieme, Argerich fa da spalla al vibrato di Perlman in un’esecuzione che resterà a lungo nella memoria della Sonata BWV 1017 di Bach. Se questi sono i vertici, l’ascoltatore non sprecherà tuttavia il suo tempo con i Fantasienstucke di uno Schumann più maturo e riflessivo e con lo Scherzo dalla F.A.E. Sonata di Brahms. Un disco che spazza via il grigio dell’inverno.


 

Ivo Perelman – Pt. 2 – Pt. 5
Se esiste, nel jazz di oggi, un esempio di impresa titanica, i sei volumi di The art of improv trio (****) ci si avvicinano. Li ha concepiti e realizzati Ivo Perelman, prolifico tenorista brasiliano di stanza a New York (lui è nato nel 1961 a Sāo Paulo, ha studiato al prestigioso Berklee College of Music e ha suonato tra gli altri con Paul Bley, Don Pullen, Andrew Cyrille e Nana Vasconcelos), con formazioni variabili, ma avendo come partner nella maggior parte delle incisioni il batterista Gerald Cleaver e i bassisti Matthew Stipe, William Parker e Joe Morris. Perelman non è nuovo ai tour de force: da ragazzo suonava chitarra, violoncello, clarinetto, trombone e pianoforte, al sax ha deciso di dedicarsi quando aveva diciannove anni. Nella sua musica destrutturata come poche (i musicisti sono andati in studio senza sapere che cosa avrebbero suonato) eppure controllatissima, che spazia dal brano medio alla lunga suite, è un piacere ammirare il sax di Perelman padroneggiare tutti i registri, con una maestria particolare in quelli acuti.

 

Alexei Lubimov – Charles Ives, Alban Berg e Anton Webern
La storia del grande pianista russo Alexei Lubimov ricorda, in piccolo e senza punte drammatiche, quella di Shostakovich. Nato a Mosca nel 1944, durante gli anni plumbei dell’Unione Sovietica fu il massimo esecutore in patria di musica occidentale. Schoenberg, Stockhausen, Boulez e Ligeti ai compatrioti li fece conoscere lui. Attirandosi i fulmini delle autorità, che fino alla caduta del Muro di Berlino gli proibirono di lasciare il paese e di avere contatti con l’Occidente. Lui fece buon viso a cattiva sorte, specializzandosi negli strumenti d’epoca (suona anche il fortepiano e il clavicembalo) e fondando il Quartetto barocco di Mosca e l’Accademia moscovita di musica da camera. Grande interprete di Mozart, Haydn e Beethoven, Lubimov non ha però mai abbandonato la musica contemporanea (su YouTube potete ascoltarlo eseguire Satie, Cage e Part). Frutto maturo di questa predilezione è l’album Concord (****), registrato vent’anni fa. Lubimov offre un’interpretazione smagliante dell’ardua e lunga Sonata n.2 Concord del modernista americano Charles Ives (1874-1954). Concord è la città del Massachusetts che ospitò i maggiori esponenti del trascendentalismo: i quattro movimenti sono dedicati a Ralph Waldo Emerson, Nathaniel Hawthorne, Louisa May Alcott (quella di Piccole donne, sì) e Henry David Thoreau. Seguono due brevi composizioni, le uniche per pianoforte degli atonali e dodecafonici Anton Webern e Alban Berg.

Diaframma – Siberia/ Brevilinea alcoolica/ Non morire
Se si guarda a Firenze, se si ripensa agli anni ’80, il grande gruppo non sono stati i Litfiba, sorry, ma i Diaframma di Federico Fiumani. L’esordio folgorante di Siberia (*****) nel 1984 li rende band di culto e manda il disco nella leggenda (ancora di recente, la rivista Rolling Stone gli ha decretato un settimo posto tra i più begli album italiani di tutti i tempi). A più di trent’anni di distanza, Federico Fiumani ha reinciso l’album, con nuove sonorità più rock per le vecchie canzoni, una manciata di nuove composizioni (molto belle Non morire, Envecelado e Same) e sette strumentali che spezzano il ritmo, eseguiti in perfetta solitudine da un altro “grande vecchio”, Gianni Maroccolo. Era un azzardo, un grande azzardo, si è rivelato una scommessa vinta: il nuovo Siberia è bello, caspita se è bello, con la sublime title track che non fa rimpiangere la vecchia classica versione di Miro Sassolini. Intanto Goodfellas ristampa tre loro album pregiati, Anni luce del 1992 (****), Non è tardi del 1995 (****1/2) e Sesso e violenza del 1996 (***1/2). Grande ritorno, anche se non se n’erano mai andati.