Mettiamo L’avaro dentro una teca e…

In Teatro

Il capolavoro di Molière in un curioso allestimento scenografico di Claudio di Palma. Vizi e virtù del protagonista Lello Arena

Un’umanità imbalsamata è quella dei protagonisti de L’avaro di Molière, la cui apparenza esteriore nasconde un animo arido, prosciugato da sentimenti di altruismo e amore verso il prossimo. E nella versione diretta da Claudio Di Palma con Lello Arena, in scena al Teatro Menotti fino al 23 gennaio, questa visione prende vita in maniera letterale, con tutti i personaggi che, in diversi momenti, transitano o vengono rinchiusi in alte teche trasparenti, come il risultato di una tassidermia ben riuscita. Le teche sono parte di una complessa scenografia ed oltre a fungere da entrata e uscita per gli attori, contengono un’infinità di sedie, simbolo di tutte le proprietà che Arpagone non vuole toccare, usare, prestare, cedere… L’unico obiettivo che ha è incrementare le proprie rendite, ed è per questo che si ingegna a combinare matrimoni per i figli, infrangendo i loro sogni d’amore ed obbligandoli a unioni per meri fini economici.

Ma se tutti i protagonisti prima o poi passano dalle teche è perché non si salva nessuno in questo quadro di una società gretta e opportunista in cui, se è vero che Arpagone si macchia di quel peccato capitale che dà il titolo all’opera, è altrettanto vero che anche gli altri personaggi, sebbene siano in apparenza mossi da sentimenti più nobili, operano per tornaconto personale, non curandosi di calpestare la volontà di chi sta loro intorno.

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Fulcro dell’azione e silenziosa protagonista della vicenda è la cassetta con il denaro nascosta da Arpagone, che troneggia per tutto lo spettacolo in una teca dedicata e che è l’unica cosa per cui l’avaro del titolo si commuove, soffre, ama davvero. Da lei dipendono tutte le sue decisioni e determina le sorti della vicenda, visto che per riottenerla il protagonista dimenticherà infine tutti i progetti matrimoniali per sé e i figli. La cassetta è inseparabilmente legata ad Arpagone, ma anche a Freccia, servitore con l’ossessione di riuscire a rubarla, divenuto qui un’interessante figura di acrobata simile ad un fool shakespeariano che accompagna e replica le manie del padrone di casa, suo Re Lear al contrario che nonostante il passare degli anni, non cederebbe mai il suo regno ai figli.

Ma questo avaro così riprovevole, questa figura sgradevole e autoritaria, dov’è? Lello Arena ha sicuramente il pregio di rendere frizzante il personaggio, e di evidenziare con la voce e la gestualità la comicità di molte battute, ma dà l’impressione di aver scelto un registro troppo macchiettistico, togliendo spessore al personaggio che resta infantile e capriccioso.

Balza subito alla mente la differenza tra l’Arpagone di Arena, fisicamente massiccio, dai movimenti scenici imponenti e dal registro vocale altissimo, confrontato con quello, opposto, di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe) visto qualche anno fa: esile e dai movimenti minimi, con voce roca e profonda. Ma la forza di un grande testo è proprio l’infinita varietà di interpretazioni che gli si possono dare, per questo potremo vedere innumerevoli Arpagone, che replica dopo replica, rivivranno la condizione della propria avarizia.

L’avaro, di Molière, al Teatro Menotti fino al 23 gennaio 

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