Ferrante Fever (again)

In Teatro

È stato in scena al Parenti fino al 28 ottobre: uno spettacolo teatrale che spazia dalla prosa alla danza, dal gesto alla musica e al video. Polimorfo come la quadrilogia da cui è tratto, Storia di un’amicizia racconta Elena e Lila concentrandosi su pochi e definiti momenti della loro vita

Rendere “performabile” una storia come quella di Elena e Lila, le due protagoniste della tetralogia de L’amica geniale, è un’impresa a dir poco titanica, e non solo per la portata narrativa dei libri. Elena Ferrante ha costruito una vera e propria saga, densa di personaggi ma anche di luoghi precisi, di descrizioni, di intrecci e di sentimenti sviscerati dalla sua scrittura, così fisica da risultare a tratti insopportabile. Portare tutto questo a teatro è complicato e la drammaturgia di Chiara Lagani sceglie di limitare la narrazione puntando tutto su un preciso momento: la perdita delle bambole, Tina e Nu, il solo tesoro di Elena e Lila bambine. Da lì parte un filo che le terrà unite tutta la vita e che ci permette di seguirne la storia sul palcoscenico.

 Lei riteneva di fare una cosa giusta e necessaria, io mi ero dimenticata ogni buona ragione e di sicuro ero lì solo perché c’era lei.

L’episodio di Don Achille, “l’orco delle favole”, viene raccontato per intero e Chiara Lagani e Fiorenza Menni si alternano ruoli e voci accompagnandoci dentro il segreto del rione, tra le voci delle madri e le superstizioni dei vicini. Napoli è sullo sfondo e non smette di emergere nel dialetto, nella gestualità e nei rituali a cui Elena e Lila ubbidiscono. Tutto il primo atto, intitolato Le due bambole, è dedicato alla loro infanzia, a quell’intesa nata dalla sfida continua a essere meglio dell’altra, a un’amicizia che era un modo di sopravvivere alla brutalità a cui dovevano abituarsi ogni giorno.

Le mamme stavano preparando la cena, era ora di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello.

Il secondo atto, Il nuovo cognome, segna lo scarto tra la vita di Elena e quella di Lila e il regista Luigi De Angelis aggiunge alle voci delle attrici riprese di bagnanti, immagini di donne e collage di visi. È a questo punto, infatti, che l’immagine di Lila viene per la prima volta attaccata, da lei stessa: dopo il matrimonio con un uomo gretto, che la picchia cercando di sottometterla, Lila vuole la rivincita di potersi cancellare da sola. La sua fotografia in abito da sposa diventa il mezzo perfetto per dimostrare, ancora una volta, sempre con l’aiuto di Elena, che l’unica padrona di se stessa è ancora lei. Così la costruzione dello spettacolo a stralci e narrazioni distinte, che vanno dalla musica al testo, dalla danza al gesto, dal video alla voce, sembra far emergere ancora di più le vite delle due amiche, sospese tra mondi diversi eppure tratti della stessa penna.

Non ero capace di affidarmi a sentimenti veri. Non sapevo farmi trascinare oltre i limiti. Non possedevo quella potenza emotiva che aveva spinto Lila a fare di tutto per godersi quella giornata e quella nottata. Restavo indietro, in attesa. Lei invece si prendeva le cose, le voleva davvero, se ne appassionava, giocava al tutto o niente, e non temeva il disprezzo, lo scherno, gli sputi, le mazzate.

Il terzo atto, La bambina perduta, è dedicato alla maternità parallela di Elena e Lila, entrambe al secondo “amore”. Come se dopo anni di lontananza volessero recuperare lo scarto, daranno alla luce due bambine, Imma e Tina, destinate a crescere insieme e ad essere specchio dell’amicizia tra le loro madri; ma le cose andranno diversamente e, ancora una volta, il meccanismo inceppato della vita colpirà Lila portandole via sua figlia.

Ci piaceva molto sedere l’una accanto all’altra, io bionda, lei bruna, io tranquilla, lei nervosa, io simpatica, lei perfida, noi due opposte e concordi, noi due distanti dalle altre donne gravide che spiavamo con ironia.

Apprezzabile  la scelta registica di mischiare registri narrativi differenti per potenziare il clima del rione descritto dalla Ferrante. Lo spettacolo di Fanny & Alexander è sicuramente un tentativo importante di mettere in scena la saga della scrittrice misteriosa ma, complice l’adorazione per la sua scrittura, io non credo renda ancora giustizia alla potenza della storia di Elena e Lila. È come se l’esigenza di raccontare i quattro libri in poco tempo avesse reso necessario silenziarne la lingua, edulcorarne gli eccessi, parafrasarne il dolore; al pubblico arrivano la profondità del legame di due donne, la violenza del rione, la forza di certi gesti, ma a me è mancata la forza del sentimento urlato, qui declinato in tanti linguaggi diversi.