I due Tom-icona alla guerra del sequel

In Cinema

“Punto di non ritorno” di Edward Zwick, capitolo n. 2 delle avventure di Jack Reacher iniziate nel 2012 (“La prova decisiva”), offre buone scene d’azione con Cruise che spara e mena come un ragazzo e 2 co-protagoniste di livello, Cobie Smulders e Danika Yarosh; “Inferno” di Ron Howard, terzo film nato dalla penna di Dan Brown con Tom Hanks-Robert Langdon, è un fiacco simil 007 in giro per l’Europa

Avete presente quelle star del cinema che, travolte d’improvviso dalla paura di invecchiare, arrivano a sfigurarsi orrendamente fino a diventare monoespressive e quasi irriconoscibili? O quegli attori condannati per successo e aspetto fisico alla parte del teenager, costretti a eclissarsi dal grande schermo alla comparsa delle prime rughe che storpiano un’immagine impossibile da cambiare? Ecco, ci sono loro, e poi ci sono Tom Cruise e Tom Hanks, talmente immodificati e immodificabili nel tempo da trascendere la fisicità dell’attore per diventare icone: non interpretano personaggi, sono quei personaggi. Sono l’usato garantito, il ruolo riconoscibile al primo sguardo, un colpo a botta sicura per qualunque regista o produttore.

Tom Hanks è il bonario padre di famiglia, l’eroe che non ti aspetti trascinato suo malgrado in mezzo all’avventura, lo sguardo perennemente spaesato e il sorrisetto rassicurante ma un po’ ingenuo. Il sorriso di Tom Cruise, al contrario, ingenuo non lo è mai stato, e ha mantenuto negli anni, se non addirittura rafforzato, quella sfrontatezza da schiaffi che tanto piace alle ragazze e che di norma si perde con la maturità.

Eppure, a volte, la strafottenza senza età può tornare utile: può servire, per esempio, a prender parte a prodotti di fantascienza relativamente low budget ma più che dignitosi (Edge Of Tomorrow, Oblivion), o a render credibile una saga nonostante il passare degli anni (Mission: Impossible), o a mettere sul piatto, a 54 anni suonati, un filmaccio d’azione come Jack Reacher – Punto di non ritorno senza sentire il bisogno di vergognarsene almeno un po’. E ci mancherebbe altro: catalogato nel 2006 dalla rivista Forbes tra le celebrità più potenti del mondo, Tom Cruise ha già dato abbondantemente prova della capacità di non sbagliare un colpo, senza inseguire forzatamente offerte di sicuro successo, ma piuttosto alternando ormai da tempo blockbuster più che accettabili nel loro genere (La guerra dei mondi, L’ultimo samurai, i vari Mission: Impossible) e progetti “alternativi” comunque interessanti, in cui mettere in mostra ciò di cui è ancora capace (Magnolia, l’ottimo Leoni per Agnelli, Collateral).

Curiosamente, come anche il capitolo precedente, il secondo episodio di Jack Reacher sembra collocarsi a metà delle due categorie, o più probabilmente in nessuna di esse. È un Jason Bourne di serie B che si presenta per quello che è, senza voglia di strafare ma catturando lo spettatore per due ore di intrattenimento puro, senza lode né infamia, a tratti forse semplicistico (perché scappare dalle prigioni militari è sempre così semplice?), ma a conti fatti mai eccessivo e più credibile di tanti altri. D’altra parte, dietro la macchina da presa siede Edward Zwick, non esattamente un innovatore ma un onesto mestierante, specializzato in film d’azione un po’ retorici fin dai tempi di Glory , che dirige senza mai rischiare e quindi non sbagliando (quasi) mai.

Certo, dalla sua ha il bel Tom, che a dispetto di qualche grinza ormai evidente, ancora salta sui tetti, spara, mena come un ragazzino, affiancato (accerchiato?) da due partner femminili tutt’altro che relegate a ruoli di soubrette da salvare: anzi, tra gli aspetti più efficaci e interessanti della pellicola ci sono la tostissima Cobie Smulders, già vista nei panni dell’agente Hill per gli Avengers e anche qui ufficiale militare tutta calci, pistole e inseguimenti, e la giovane Danika Yarosh, praticamente all’esordio sul grande schermo dopo una promettente carriera tra serie tv come Shameless e Heroes Reborn.

Insomma, poteva andare meglio? Forse. Peggio? Assolutamente sì, per informazioni chiedere a Tom Hanks, la cui bravura come attore non è certo da meno dell’omonimo collega, lo mostrano due premi Oscar, quattro Golden Globe, cinque Emmy e un Orso d’Argento. Eppure lui sì, forse più legato al prodotto buonista di cassetta, o forse semplicemente per la legge dei grandi numeri, qualche colpo a vuoto ogni tanto lo spara, eccome. Per esempio Inferno, per la regia dell’inspiegabilmente immortale (cinematograficamente parlando) Ron Howard, che pure ha firmato di recente il riuscito The Beatles, Eight Days a Week. Più che un film sbagliato, il suo è semplicemente un film di cui nessuno sentiva, o dovrebbe sentire, il bisogno. Se Zwick non si è mai distinto per la voglia di stupire lo spettatore, Ron Howard al confronto è il classicismo, l’ortodossia del cinema americano fatto secondo le regole, non un capello fuori posto alla ricerca della perfezione per l’home video. I suoi ultimi film sono come junk food patinato, studiato nel dettaglio per il gran pubblico, per non scontentare nessuno, ma molto, molto lontano (salvo eccezioni, come il riuscitissimo – e furbo – Rush) dal prodotto degno di nota.

Il suo Inferno, terzo capitolo della serie tratta dall’opera di Dan Brown dopo Il Codice Da Vinci e Angeli e Demoni, parte bene, con un incipit accattivante e qualche buona idea, salvo inciampare miseramente proprio quando dovrebbe mettersi a correre. Lascia pregustare tinte quasi horror e una scelta di sceneggiatura audace, per quanto ormai un po’ abusata (l’inizio in medias res modello Memento a causa di un’amnesia del protagonista, il professore Robert Langdon, interpretato per la terza volta da Tom Hanks), e poi si ingarbuglia in una trama così assurda che ci vorrebbe un minuto a raccontarla e un giorno intero a tentare (invano) di spiegarne motivazioni e passaggi logici: storie d’amore buttate lì a casaccio per umanizzare personaggi di raro piattume, e colpi di scena un tanto al chilo, che lasciano lo spettatore più che contrariato semplicemente indifferente, che forse è anche peggio.

Il tutto è affidato a un cast di valore, sulla carta, ma all’atto pratico dall’aria decisamente poco convinta, capitanato da un incerto Tom Hanks in modalità minimo sindacale, affiancato da Felicity Jones (nomination all’oscar per La Teoria del tutto e tra poco nuovamente nelle sale con Star Wars: Rogue One) e da Omar Sy (premio Cesar e successo internazionale con Quasi Amici): così le pur riconoscibilissime e riconosciute capacità attoriali dell’uno e dell’altra riescono in alcun modo a salvare l’insalvabile. La forza dei primi due capitoli, oltre che nel gioco degli enigmi divenuto ormai tanto facile e veloce per i protagonisti quanto incomprensibile per lo spettatore, era soprattutto nelle atmosfere da thriller politico con venature di sovrannaturale: Inferno è piuttosto un Intrigo internazionale poco riuscito, al confine col dépliant di un’agenzia di viaggi, pretenzioso e carico di autocompiacimento, i cui personaggi corrono sempre, ma a vuoto. Capita così che un solo momento rompa l’apatico silenzio della sala, in una risata involontaria ma liberatoria: quando il geniale Langdon scopre di doversi spostare da Firenze a Venezia, e il suo compagno esclama entusiasta: “Perfetto! Sono solo due ore di treno!”, e giù applausi, e un’altra ora buona di pellicola inutile. Avessero preso il regionale invece di Italo, a trovare l’Inferno sarebbero bastati cinque minuti.

 

Jack Reacher – Punto di non ritorno, di Edward Zwick, con Tom Cruise, Cobie Smulders, Danika Yarosh, Aldis Hodge

Inferno, di Ron Howard, con Tom Hanks, Felicity Jones, Omar Sy, Irrfan Khan, Sidse Babett Knudsen