Diventare grandi nonostante Pennywise

In Cinema

Andy Muschietti ha portato sullo schermo le 1200 pagine di uno dei capolavori del maestro della letteratura dello spavento che però è insieme anche uno struggente romanzo di formazione, fatto di emozioni, metafore e sentimenti. L'”impossibile” impresa, tutto sommato, è riuscita, perché grazie a una compagnia di giovani e talentosi attori anche sullo schermo prende vita quel complesso e straordinario momento di crescita che è passare dall’infanzia all’età adulta. In questo caso attraverso il drammatico confronto con un serial killer, incarnazione di tutte le paure che vivono dentro di noi

Un bambino con l’impermeabile giallo e la sua barchetta di carta cerata corrono spensierati sotto la pioggia, incontro al male assoluto, che esce dalle fogne di Derry con le sembianze di un clown dal sorriso crudele: Pennywise. Il celebre incipit di uno dei romanzi più famosi di sempre ritorna in questo film tanto atteso, e che in tanti avrebbero una gran voglia di liquidare come un’inutile (per non dire dannosa) operazione commerciale. E invece It di Andy Muschietti (autore qualche anno fa di un ottimo horror, La madre) non è così inutile e di sicuro non fa danni. Certo, non è nemmeno del tutto all’altezza delle aspettative, ma bisogna ammettere che forse si trattava di una missione impossibile.

Il classico di Stephen King (1986) cui si ispira è un vero e proprio romanzo di formazione, immenso e struggente, lungo la bellezza di 1200 pagine e talmente denso da contenere un universo intero, fatto di orrori e scoperte, metafore e spaventi, emozioni e sentimenti più veri del vero. Il film di Muschietti, nonostante una durata ragguardevole (due ore e un quarto solo per raccontare la parte del romanzo in cui i protagonisti sono bambini), non ha niente di grandioso, è solo un film. Però non è solo un horror, un prodotto commerciale senz’anima, tutto merchandising e brividi finti, da consumare in fretta sgranocchiando popcorn.

Del libro, inevitabilmente, perde la stratificazione di sensi e sentimenti, la complessità metaforica, la capacità di raccontare anche i silenzi, i dettagli segreti, le emozioni senza voce. Però conserva, quasi miracolosamente, la capacità di descrivere quel magico e terribile momento di passaggio, il non esser più bambini ma al tempo stesso non saper immaginare come potrà essere la vita adulta. Quel trovarsi in bilico, di fronte al bisogno di intrecciare mani e sguardi, di riconoscersi e sostenersi, salvarsi dall’orrore trovando riparo nello sguardo dell’altro. Un altro che ti somiglia e come te sta arrancando verso il domani, come te spaventato a morte. Insomma, la scoperta di quel gruppo dei pari attraverso il cui sostegno si esce dall’infanzia e si diventa grandi, prendendo le distanze da mamma e papà e imparando a non aver paura. Un rito di passaggio che ognuno affronterà in prima persona, perché ognuno deve imparare a fronteggiare i propri demoni, e non quelli degli altri: ma se non sei da solo, è un po’ più facile, meno pericoloso, anche se ad aspettarti dietro l’angolo non c’è quel mostro di Pennywise! Perché di mostri, comunque, è pieno il mondo, e crescere significa imparare anche questo.

Un altro elemento di assoluta fedeltà, nel passaggio dal romanzo al film, è la descrizione rabbiosa e disperata della piccola comunità chiusa e bigotta in cui si svolge la vicenda: una cittadina all’apparenza tranquilla ma dominata dalla violenza e dalla sopraffazione, a tutti i livelli, in ogni famiglia. Tutti hanno paura (del padre poliziotto o della madre fanatica, delle malattie o del buio), e quasi tutti reagiscono alla paura cercando di incutere terrore negli altri: soltanto i nostri protagonisti, onorati membri del “club dei perdenti”, si sforzano di uscire dall’eterna ripetizione dell’uguale, dal meccanismo perverso che da sempre alimenta la paura e genera la violenza.

L’ambientazione anni ’50 del libro di King è stata trasposta negli anni ’80, nel chiaro tentativo di rendere i protagonisti più vicini ai giovani spettatori di oggi, ma questo cambiamento finisce con l’essere del tutto irrilevante, perché l’amore e l’amicizia, l’odio, la rabbia e la paura, ingredienti fondamentali sia del libro che del film, sono rimasti assolutamente gli stessi. Se il lavoro di Muschietti appare riuscito, gran parte del merito va anche alle scelte di cast: in primo luogo a questa banda di ragazzini spaventati e temerari, con al centro l’intraprendente Billy (Jaeden Lieberher) e la seducente Beverly (Sophia Lillis) dai riccioli rossi, il ciarliero e occhialuto Richie (Finn Wolfhard), l’ipocondriaco Eddie (Jack Grazer), lo straordinario Ben (Jeremy Ray Taylor), vittima designata di ogni bullo eppure capace di trasformare la debolezza in forza.

Forse l’unico che non strappa l’applauso è Bill Skarsgard nei panni del malefico Pennywise. Funziona, per carità, è un’interpretazione del tutto corretta, ma nulla più. Non lascia il segno. Cosa che invece aveva saputo fare Tim Curry (sì, proprio lui, quello del Rocky Horror Picture Show) nella quasi del tutto fallimentare miniserie degli anni Novanta: con quelle movenze da clown scemo riusciva infatti a sorprendere e spaventare, rivelandosi davvero disturbante e capace di fissarsi nell’immaginario collettivo. Il Pennywise di Skarsgard è decisamente meno sorprendente nel suo ghignare e strisciare, sbucare fuori e acquattarsi nell’ombra, mutare di aspetto e voce, ben servito in ogni modo da ottimi effetti speciali e da un montaggio impeccabile. Comunque, non manca di raggiungere il suo scopo: incutere terrore. In fondo, è solo questo che conta davvero.

It, di Andy Muschietti, con Bill Skarsgard, Jaeden Lieberher, Sophia Lillis, Finn Wolfhard, Jack Grazer, Jeremy Ray Taylor