Il Giardino della nostra epoca l’ha fatto Dodin

In Teatro

Dopo quasi vent’anni torna al Piccolo Il giardino dei ciliegi diretto da Lev Dodin in una nuova edizione. Il regista russo è l’unico ad aver portato il testo di Čechov al Piccolo dopo Strehler.

Alle soglie dello spettacolo c’è un giardino. Lev Dodin lo proietta come film muto su un telo che chiude il palco, come un sipario. Tutto parte da questa semplice ma memorabile invenzione. Quanto agli attori, sono costretti a rimanere in sala, tra il pubblico, e si aggirano tra le poltrone del Teatro Strehler come se fosse la casa venduta all’asta che dovranno lasciare per sempre. Solo di rado riattraversano la quarta parete e riconquistano il palcoscenico, diventando ombre al di là del telo che ricade alle loro spalle.

È questo Il giardino dei ciliegi della nostra epoca, dopo quello di Strehler, quello di Brook, ora c’è Dodin con la sua compagnia del Teatro Maly –  in russo con sovratitoli in italiano ma dopo un attimo non ce ne si accorge più –, che per magiche connessioni vuol dire proprio “piccolo”, senz’altro l’ospitalità più importante dell’anno a Milano, forse in Italia, da vedere fino al 26 novembre a costo di corrompere qualcuno per le liste d’attesa.

Lo spettacolo comincia con l’ultima, rassegnata battuta del servo Firs che, dimenticato come un vecchio mobile, commenta: La vita è passata e io è come se non l’avessi vissuta. Dodin la sposta all’inizio e la brucia subito, la alleggerisce del solito peso luttuoso – Čechov scrive il Giardino che è già malato, morirà pochi mesi dopo il debutto – e la priva di ogni retorica in cui si potrebbe cascare. Perché, a dispetto di ogni pregiudizio, questa è davvero una commedia.

Čechov voleva provare a tutti che non era disperato, per questo la pièce doveva essere divertente. Lo diceva a Stanislavskij e anche alla Knipper. Il problema è che poi tutto andava al contrario, perché anche se la sua ragione voleva una cosa, il suo genio ne faceva un’altra: più lui cercava di farla divertente, più veniva fuori la disperazione.

E questo disperato divertimento Dodin riesce davvero a metterlo in scena. Atto dopo atto si ride spesso, mai cinicamente né per provocazione, ma per prendere in contropiede quel senso di comico che spesso si accompagna al lirismo. Così i piani si intersecano fino a sovrapporsi, i pesi del cuore diventano buffi e le battute spiritose commuovono, perché una delle innumerevoli leggi che questo spettacolo dimostra è che a teatro i paradossi sono perfettamente leciti.

Colpo di genio è senz’altro il passaggio tra le due dimensioni, al di là e al di qua dello schermo, della membrana messa al posto della quarta parete. Sta proprio lì il giardino: in ogni immateriale frame proiettato da una macchina in platea, traccia dell’incantesimo della finzione più importante della storia – il cinema era nato da meno di dieci anni – e allo stesso tempo segno di una realtà svanita per sempre – il giardino di ciliegi che si vede sta in Germania, perché in Russia non ce ne sono più.

Così, tra palco e platea stanno due portali di accesso: uno astratto che c’è sempre e uno concreto che ha fatto issare Dodin. E a seconda della loro aderenza, del loro combaciare più o meno difettoso, la rappresentazione arriva a una mutazione genetica: cambia di senso, di significato e risveglia il pubblico, lo coinvolge in una faccenda che lo riguarda, perché sono tutti in qualche modo protagonisti dei cambiamenti annunciati da Čechov.

È un’opera molto più storica di quanto io stesso avessi immaginato la prima volta che l’ho messa in scena. Cercando di capire la situazione politica e sociale di quegli anni mi sono accorto che Čechov stava profetizzando i cambiamenti che sarebbero arrivati quattordici anni dopo, con la rivoluzione. Anche noi viviamo in un’epoca in cui i valori cambiano in continuazione, e chi cerca di salvaguardare anche un solo piccolo valore diventa eroico. Forse ridicolo, ma eroico.

Il cast è straordinario perché ribalta il pregiudizio che liquida Čechov a un teatro di parola, in cui servono attori in grado di immedesimarsi – solita vulgata di Stanislavskij. Gli attori del Maly stanno in scena, o meglio fanno la scena con gesti invisibili che risuonano anche in una sala da mille posti: basta un rumore di chiavi e il giardino è stato venduto. Difficile vedere baci più passionali, realistici, sostanziali di quelli con dito in bocca tra i due camerieri Jasha e Dunjasha, o di quelli tra Varja e Lopachin, al di sopra dell’immedesimazione, al di sopra dell’amore.

La Ranevskaja è interpretata da Ksenia Rappoport, che scambia pianto e riso e arriva al seme del personaggio, alla vita del testo sorprendendoci in continuazione, facendo sempre il contrario di quello che ci aspettiamo. Ma il centro gravitazionale dello spettacolo è Danila Kozlovskij, il commerciante Lopachin, con la furia del suo assolo che cresce e diventa una danza macabra sulle sorti del giardino, sciogliendosi poi con My way di Sinatra a conclusione di un numero da stand-up comedian.

Subito salta all’occhio che in questo Giardino non c’è attesa, e nemmeno quell’inazione che si avverte sempre nel teatro di Čechov.
C’è sempre questo mito che gli eroi di Čechov non fanno niente. Invece sono tutti fantasticamente attivi. Solo che non sono mai soddisfatti, perché non vorrebbero essere dei borghesi che lavorano, il loro spirito richiederebbe un’altra vita. Così, come fa qualsiasi persona intelligente, se ne lamentano. E i lettori, i critici, che sono ingenui, li prendono sul serio: pensano che se l’eroe dice di non valere niente deve essere vero per forza.

Però il giardino lo perdono lo stesso.
Perché nella vita si può riuscire, ma anche non riuscire. Anche io vorrei sempre un teatro classico, umano, bello, ma non ci riesco sempre. I personaggi di Čechov sono molto coraggiosi perché non cadono mai: preferiscono morire, o vivere come se fossero già morti. Noi invece fingiamo sempre di sapere quale sia il motivo per cui viviamo.

Ha visto il Giardino di Strehler?
Solo in video, ma ho un ricordo di Giorgio a proposito del Giardino. Durante le prove all’Odéon, a Parigi, all’improvviso si è materializzato dal buio della sala e mi ha detto: Io ho fatto un Giardino tutto bianco, tu l’hai fatto tutto nero.

Eppure c’è molto bianco in questa nuova edizione – anche le poltrone in sala sono ricoperte di stoffa bianca. È una citazione dello spettacolo di Strehler?
A teatro è difficile dire coscientemente: ora faccio una citazione. Tutto ti arriva da dentro, dalle tue esperienze. So che dentro di me vive qualcosa che mi spinge a certe scelte. Non è solo una questione di colore o di soluzione scenica: conta l’emanazione spirituale di questo testo.

Il finale è destinato a rimanere per sempre nella memoria di chi lo vedrà: Lopachin che consegna ai fratelli sfrattati le pellicole, le pizze con le riprese del giardino, cancellando in un gesto il loro passato e costringendoli a un improvviso ritorno al presente e al futuro della loro disillusione. Lo stesso ritorno che tocca a noi spettatori quando il servo Firs, rimasto solo nella casa vuota, scopre che il passaggio al di là del telo è bloccato per sempre. Il sogno è concluso, pensa, mentre con le spalle al pubblico tasta lo schermo spento, incredulo. O forse, vecchio Firs, il sogno non è mai iniziato.

Immagine di copertina di Viktor Vassiliev

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