Amore e disamore, piacere e dolore: la danza macabra, da Oscar, di P. T. Anderson

In Cinema

Sembra quasi certo che “Il filo nascosto” sarà l’ultima possibilità di vedere sullo schermo il suo grande protagonista Daniel Day-Lewis, tre Oscar all’attivo e una nomination anche per la splendida interpretazione del geniale sarto Reynolds in questo film, che di candidature in tutto ne ha raccolte sei. Ma non è la sola ragione per apprezzare il nuovo capolavoro del regista di “Magnolia” e “Il petroliere”, un affresco sui sentimenti, il potere e la complessità della società e della psiche umane. Un racconto perfetto, raffinato, essenziale, ma anche intimamente misterioso, disturbante, sfuggente

È candidato a sei premi Oscar Il filo nascosto, ottavo film di Paul Thomas Anderson, uno degli autori americani più interessanti in circolazione, e probabilmente sarà l’ultima apparizione al cinema di Daniel Day-Lewis, uno degli attori più dotati di sempre, vincitore di ben tre Oscar al miglior attore per Il mio piede sinistro, Il petroliere e Lincoln. Ma di motivi per correre a vederlo ce ne sono anche molti altri. Per esempio, perché è un capolavoro.

Londra, anni 50. Il marchio “House of Woodcock” è sinonimo di stile ed eleganza sopraffina e attrae irresistibilmente ricche borghesi e principesse, stelle del cinema ed ereditiere. A guidare l’impresa con piglio ossessivo e smisurato genio creativo c’è il grande sarto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis), aiutato dalla pragmatica sorella Cyril (Lesley Manville) e da un certo numero di sarte e sartine, muse e modelle. Poi un giorno arriva Alma (Vicky Krieps), una goffa cameriera, nemmeno tanto bella e apparentemente docile, umile fino all’abnegazione. Una tela bianca, perfetta per dipingere un ritratto di inedita bellezza, una statua inerte da plasmare a proprio piacimento.

Raccontata così sembra la riproposizione del mito classico di Pigmalione, genialmente riscritto un secolo fa da George Bernard Shaw e da allora infinite volte riletto e ripreso fra cinema e letteratura. Ma Paul Thomas Anderson non pare minimamente interessato a una semplice variazione su un tema fin troppo abusato, e così, spalleggiato da un magnifico cast, mette in scena un labirinto delle emozioni e dei sentimenti, costruendo scena dopo scena una storia sorprendente, enigmatica, stratificata, piena di tranelli e detour, di stupori e tremori. Un racconto ingarbugliato (perché i sentimenti sempre lo sono) e al tempo stesso limpidissimo, costellato di curve cieche e angoli oscuri, però capace comunque di condurci verso un finale di luminosa e consapevole nettezza.

Una storia d’amore, certo, ma soprattutto il complesso ritratto di una casa, di una famiglia, di un mondo. Dove la vera domanda che risuona e riecheggia a ogni passo – su e giù per le scale, fuori e dentro vestiti tanto sontuosi quanto delicati, impeccabilmente seduti a tavola o raggomitolati in un letto in preda alla febbre – è sempre la stessa: chi è il più forte? Chi sta guidando il gioco? Chi davvero conosce la posta in gioco? Il grande sarto che incede sicuro sul palcoscenico del mondo? La sorella che nell’angolo intesse la sua tela e come un ragno osserva e invischia, mescolando e rimescolando le sue vecchie carte? La giovane musa dall’opaca e al tempo stesso smagliante presenza? Forse alla fine la vera forza la possiedono soltanto i fantasmi: l’evanescente spettro di quella madre troppo amata, chiusa nel suo meraviglioso abito nuziale come dentro un sudario, che non smetterà mai di abitare le notti di quel figlio insofferente e dispotico, tirannico come tutti i bambini, e come tutti i bambini fragile.

Paul Thomas Anderson nei suoi film ha sempre parlato di potere, in fondo. Non del Potere con la P maiuscola, quello della politica e della finanza, quello che influenza governi e industrie, creando nel mondo ricchezze immense e povertà estreme. No, parliamo del potere con l’iniziale minuscola ma non per questo meno potente, quello che scorre sottotraccia, invisibile come un fiume carsico, nascosto come il filo del sarto, quello che pervade sottile e tenace ogni relazione umana, sentimentale, sessuale, amicale, famigliare. Anderson ne ha parlato in modo sublime nel Petroliere e in The Master, e qui torna a interrogarsi su questa materia terribile e sfuggente, la sostanza stessa di cui è fatta la società umana.

La complessità della società umana, quella che sfugge a tutti quanti guardano il mondo, e gli uomini e le donne che lo popolano, attraverso le lenti deturpanti dell’ideologia. E l’ideologia è proprio ciò che per fortuna manca allo sguardo di questo regista, capace sempre, ma in questo film ancor più del solito, di raccontare un universo complesso attraverso immagini precise, calibrate alla perfezione, gesti impercettibili, giochi di sguardi intrecciati, limpidi e subdoli.

Un film perfetto, raffinato, essenziale, ma anche intimamente misterioso, disturbante, sfuggente. Un capolavoro che davanti ai nostri occhi rapiti intreccia amori e disamori, piaceri e dolori, facendo danzare insieme forza e debolezza, fragilità e potere. Una danza a tratti macabra, spesso folle, sempre sinuosa e seducente.

 Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Lesley Manville, Vicky Krieps, Sue Clark, Joan Brown, Camilla Rutherford