Alfabetiere Wellesiano

In Cinema, Letteratura

“Il cinema secondo Orson Welles” è un sacro Graal per gli amanti della settima arte. Oltre a raccontarvelo, ve ne proponiamo qui un alfabetiere, una sorta di compendio “in pillole” del Welles-pensiero.

Nel 1968 Peter Bogdanovich ha quasi trent’anni, un passato da critico cinematografico e un promettente futuro come cineasta. Orson Welles di anni ne ha più di cinquanta, da dieci non mette piede in uno studio hollywoodiano – da quando cioè la Universal gli ha strappato di mano il montaggio de L’infernale Quinlan e fa sempre più fatica a trovare finanziamenti per i propri progetti.

A dispetto di tutto ciò, quando quell’anno i due s’incontrano per la prima volta («per prendere un caffè e fare due chiacchiere», ricorda Bogdanovich) in un hotel di Beverly Hills, l’intesa è praticamente immediata. Al termine dell’incontro, sfogliando la monografia su John Ford che Bogdanovich ha appena pubblicato, Welles si lascia scappare qualche parola di rammarico: «Non è un peccato che lei non possa scrivere un altro bel libriccino come questo su di me?». «Perché no?», risponde l’altro.

I due si mettono subito al lavoro, ma l’impresa si rivela molto più ardua del previsto: il «bel libriccino», nel frattempo divenuto una sorta di “sacro Graal” fra gli ammiratori di Welles, vedrà la luce soltanto nel 1992. Per portarlo a termine occorrono gli sforzi congiunti dello stesso Bogdanovich, dell’ultima compagna di Welles, Oja Kodar e dello studioso Jonathan Rosenbaum, responsabile dei ricchi apparati critici che corredano il volume, incluse una puntuale ricognizione della carriera del regista e la ricostruzione delle sequenze tagliate da L’orgoglio degli Amberson.

Non meno avventurosa la vicenda italiana dell’opera. Prontamente tradotto a metà degli anni Novanta da Baldini&Castoldi con il titolo Io, Orson Welles, il libro conosce un rapido ma effimero successo, tanto da finire (chissà perché) nel limbo dei reminders nel giro di un decennio o poco meno. Fino a oggi, quando Il Saggiatore, forse sull’onda lunga delle celebrazioni del centenario Wellesiano (1915-2015), ha deciso di ripubblicarla con un nuovo titolo – Il cinema secondo Orson Welles – e la prefazione, dello stesso Bogdanovich, alla seconda edizione americana (ma senza più, ahimè, l’introduzione di Rosenbaum, ricca di importanti note filologiche sulla composizione del libro).

Curiosamente, la scelta del nuovo titolo ripropone (in modo forse inconsapevole) un duello a distanza fra questo libro e l’altro grande frutto della politique des auteurs, l’altrettanto celebre Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. Qualche anno fa Mario Sesti dichiarava che il dialogo fra Bogdanovich e Welles era più bello e interessante e affascinante di quello fra Truffaut e Hitchcock, dando voce a una vasta schiera di cinefili che fino ad allora era rimasta in rispettoso silenzio, forse intimidita dall’auctoritas di sir Alfred.

Welles, che detestava la “politica degli autori” («Per me esistono solo opere») e che nei film di Hitchcock trovava «un che di gelidamente calcolato che mi mette a disagio», magari avrebbe apprezzato il confronto: la “contriety”, come egli stesso definiva la capacità di porsi sempre in fruttifera contrapposizione con qualcuno o qualcosa, era d’altra parte un tratto importante del suo carattere.

Se poi volessimo portare argomenti a favore de Il cinema secondo Orson Welles, dovremmo per correttezza aggiungere che non si tratta “soltanto” di un libro di cinema. La conversazione di Welles spazia infatti dal teatro alla recitazione, dallo Studio System (con una dose consistente di aneddotica spicciola) alla politica, dall’opera di Shakespeare a quella di Cervantes; perché, spiega, per insegnare a fare cinema «si dovrebbe insegnare praticamente tutto tranne i film… Per fare un film sul mondo di oggi dovremmo sforzarci di capire più che possiamo venti millenni di opere umane… Perché chiunque valga qualcosa è capace di capacissimo di arrivare da solo a capire Howard Hawks, o me o chiunque altro, dopo aver visto qualche nostro film».

Insomma, c’è poco da stupirsi se Il cinema secondo Orson Welles è divenuto, col tempo, una specie di livre de chevet non solo per gli amanti del cinema, ma un po’ per tutti coloro (incluso lo scrivente) che hanno avuto la fortuna di averlo fra le mani. Difficile scriverne: molto più semplice citarne, a mo’ di massime morali, le innumerevoli frasi ad effetto che lo costellano. Vale la pena metterne in fila qualcuna fra le più illuminanti, in una sorta di compendio “in pillole” del Welles-pensiero.

Artista. È una concezione egocentrica, romantica, ottocentesca che l’artista sia più interessante e importante della sua arte. Questa enfasi sull’artista – la glorificazione dell’artista – è una delle brutte pieghe prese dalla nostra civiltà negli ultimi due secoli. In altre parole, il senso stesso di un libro come questo è proprio quello che avverso.

Budget. Per fare film ci vogliono troppo tempo e troppi soldi. Ci vuole troppo tempo per trovare i soldi. Ho passato la maggior parte della mia vita, ormai, a tentare di fare dei film.

Cinefilia. Non esiste la “cultura cinematografica”, solo un enorme mucchio di film. Bisogna “tenersi aggiornati”, naturale, ma con tutto il vasto mondo, non solo con i film.

Domatori. I domatori di leoni si dividono in due grandi scuole, la francese e la tedesca. Nella scuola francese, gli animali vanno tenuti a distanza, devono stare sempre al posto loro. Nella scuola tedesca, sembra sempre che si ribellino al domatore. Be’, anche i registi si dividono in due grandi scuole: in una il regista domina e terrorizza. Io appartengo all’altra.

Eden. È un tema che mi interessa. La nostalgia per il giardino… è un tema che ricorre in tutta la nostra civiltà. Anche se i bei vecchi tempi non sono esistiti mai, il solo fatto che riusciamo a concepirli è un’affermazione dello spirito umano. Che l’immaginazione dell’uomo sia capace di creare il mito di tempi più aperti e generosi non è un segno della nostra follia.

Falstaff. Penso che sia uno dei pochi grandi personaggi essenzialmente buoni della letteratura drammatica. Tutta la commedia è giocata sui suoi grossolani difetti, ma sono difetti tanto banali: la sua famosa codardia è uno scherzo. Uno scherzo a suo danno, come se Falstaff continuasse a prendersi in giro tra sé; in realtà ci sarebbero forti argomenti a sostegno del suo coraggio. Ma la sua bontà è elementare, come il pane, come il vino. Trabocca d’amore; chiede tanto poco, e alla fine, naturalmente, non ottiene nulla.

Genitori. Mio padre era un uomo molto strano. Affascinante. Grande spirito, grande narratore di aneddoti. Lo ammiravo e lo amavo, ma era aspramente contrario alle mie inclinazioni per la musica, la pittura eccetera. Mia madre era l’artista… la musicista. È stata lei a farmi diventare una specie di bambino prodigio della musica: direttore, violinista, pianista. Poi, quando avevo nove anni, è morta. Da allora non mi sono mai più occupato di musica.

Hollywood. Non mi sono mai lamentato di Hollywood, ma non mi sento uno dei principali beneficiari del sistema.

Intellettuali. Sono sempre stato in pessimi rapporti con l’ufficialità intellettuale. Io disprezzo quegli intellettuali, loro lo sospettano e disprezzano me. Sono un intellettuale anch’io, ma non appartengo all’ambiente intellettuale ufficiale.

Lavoro. All’epoca d’oro della radio eravamo parecchi a fare un mucchio di soldi schizzando da una soap opera all’altra. Presto ne feci così tante che non provavo neanche più. Facevo una brutta fine in qualche drammone strappalacrime al settimo piano della CBS e correvo al nono (mi tenevano fermo l’ascensore) dove, mentre si accendeva la luce rossa, qualcuno mi allungava un copione e mi bisbigliava: “mandarino cinese, settantacinque anni”, e via che scendevo in pista.

Montaggio. È come scrivere, un lavoro solitario. Bisogna essere capaci di sgobbare, sgobbare e sgobbare, dieci ore al giorno, tutti i giorni, un mese dopo l’altro. È senso del ritmo, tutto lì. La vera forma di un film è musicale. Si può insegnare fino a un certo punto. Se mai cercassi di insegnare a fare cinema, terrei la maggior parte dei miei corsi attorno a una moviola.

Nome. Sono stato Orson per tutta la vita. Ho saputo che il mio primo nome era George a nove anni. Fu un trauma pauroso. Come avevo torto! Nascere con un nome così e non usarlo. George Orson Welles! Con un nome come George Orson Welles non avrei bisogno di ispirare fiducia, sarei imperatore del mondo!

Orecchio. Io una scena la giudico a orecchio, una scena difficile da recitare. Quasi preferisco non guardare gli attori. Secondo me, è dall’ascolto che su capisce tutto. Se è bella da ascoltare, sarà bella anche da vedere.

Progettare. Io faccio i progetti più maledettamente dettagliati che tu abbia mai visto, e poi li butto via. Non faccio progetti per realizzarli, li faccio per prepararmi a improvvisare.

Regia. Non c’è un altro mestiere al mondo in cui un uomo possa andare allegramente avanti per trent’anni senza che nessuno mai s’accorga ch’è un incompetente. Dagli un buon copione, un buon cast, e un buon montatore – o uno solo di questi elementi – e tutto quello che deve dire è “azione” e “buona”, e il film si fa da solo. La regia cinematografica è il perfetto rifugio dei mediocri.

Specchio. Porgi uno specchio alla natura, questo è il messaggio di Shakespeare all’attore. Quanto è più adatto e più vero, per un creatore di film! Se non conosci qualcosa della natura alla quale porgi il tuo specchio, quanto sarà limitata la tua opera! Più la gente di cinema si tributa omaggi, più s’inchina ai film invece che alla realtà, e più si approssima all‘ultima scena della Signora di Shanghai: una serie di specchi che si rimandano i riflessi.

Teatro. Amo i teatri vuoti. Durante le prove, voglio dire. Stare dentro una di quelle vecchie bomboniere buie, con gli attori e basta, a fare qualcosa che solo più tardi esisterà.

Vecchiaia. Per un drammaturgo, non è una preoccupazione cui sia bene indulgere, perché è l’argomento che il pubblico ama meno sentirsi ricordare. Ma mi ha sempre affascinato; tanto a vent’anni quanto ora che è una realtà che comincia a incombere…

 

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