I hate my village: come nasce un supergruppo

In Musica

Il supergruppo “I hate my village” si è presentato al pubblico con un album eclettico e raffinato. Abbiamo fatto due chiacchiere con Viterbini e Fasolo per capire come è nato questo progetto e dove sta andando

A gennaio è uscito per l’etichetta La Tempesta I Hate My Village qui la nostra recensione – primo album dell’omonimo supergruppo nato da un’idea del chitarrista Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e del batterista Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) a cui, nel tempo, si sono uniti la voce di Alberto Ferrari (voce e chitarra dei Verdena) e il basso e le produzioni di Marco Fasolo (frontman dei Jennifer Gentle).

Abbiamo incontrato Viterbini e Fasolo per farci raccontare come sta andando questo nuovo progetto.

Buongiorno ragazzi, intanto vi ringrazio per questa intervista, come va? Vedo che state girando parecchio! Siete stanchi?
(Adriano Viterbini) No, siamo molto soddisfatti! Stiamo vivendo un momento molto bello delle nostro vite artistiche, perché stiamo facendo una cosa che è molto spontanea, che viene da sé, non ha troppe strategie o calcoli dietro, e il fatto che sta andando bene ci fa ben sperare per la vita della musica in generale, ma soprattutto entusiasma noi. È sempre molto emozionante.

Negli ultimi giorni ho letto che avete aggiunto nuove date al tour, che tutti i dischi sono stati venduti e che è pronta una ristampa e dei cd con bonus track. Vi aspettavate tutto questo riscontro?
(A.V.) Assolutamente no! Avevamo pensato di fare un disco per noi, per l’amore della Musica. Ma poi abbiamo cominciato a vedere che questo nostro incontro piaceva anche agli altri… Guarda, è come se fossimo su un’onda e ora ci stiamo facendo cullare da quest’onda che è partita. È veramente un modo bello e genuino di vivere la musica. Siamo partiti con un profilo molto basso, ed ecco, i vinili sono finiti e si ristampano, ci chiedono altre date e noi le facciamo: è tutto così, in crescita organica! [ride]

Secondo voi il fatto che la vostra band sia formata da quattro dei musicisti più affermati del panorama musicale italiano quanto ha influito su questo riscontro del pubblico? Avrebbe avuto lo stesso successo se voi non foste stati voi? 
(A.V.) Guarda, probabilmente questa è una cosa che ha fatto gioco più alla stampa, credo che per i giornalisti sia una cosa “comoda” da immaginare, da scrivere, ma per quanto riguarda il grande pubblico non credo abbia influito molto. Stiamo comunque parlando di un esperimento musicale quindi non ha i classici connotati di tutte le operazioni musicali fatte finora, non è la classica band. Diciamo che la nostra è stata una modalità nuova, sia come band sia come modo di fare musica e quindi è una cosa originale, lo è per noi e immagino lo sia anche per voi che in qualche modo lo state recependo.

Quindi intendi dire che questo album avrebbe avuto comunque lo stesso riscontro?
(A.V.) Questo non te lo so dire! Diciamo che il panorama musicale italiano, ingolfato tra cantautorato e trap, vede in noi qualcosa di diverso [sorride]. Ma non è che non mi piaccia il cantautorato o la trap, anzi, la trap mi piace, la trovo semplicemente una constatazione dei fatti.

Nelle varie interviste ho letto che il nome I Hate My Village deriva da un cannibal movie africano che si chiama I Ate My Village e che vi ha colpito l’assonanza tra Hate e Ate. Cosa c’è quindi in questa assonanza che vi ha colpito? Quale sfumatura mette in luce? 
(A.V.) Ma in realtà il nome è nato da un’infatuazione dall’estetica del nome. Ci piaceva I Ate My Village per il fatto che fosse un nome con più livelli di interpretazione: “io odio”, “ho mangiato”, ed essendo un cannibal movie ci faceva anche sorridere l’”errore” di pronuncia e probabilmente è quello che abbiamo fatto noi nei confronti dell’esperienza con la musica africana. Noi non suoniamo con la volontà di fare musica afro, noi suoniamo il nostro dialetto, il nostro slang di quel tipo di musica e in questo senso ti direi che la cosa più interessante del nome è appunto il fatto che potesse avere più chiavi di interpretazione.

Ma quindi questo è lo stesso concetto che sta dietro al nome Tony Hawk of Ghana?
(A.V.) Tony Hawk of Ghana era perfetto! Era un nome che ci faceva ridere perché ci siamo immaginati uno skater però del Ghana, che fa gli stessi trick, le stesse cose, ma in un contesto diverso. Ci piaceva immaginarlo. È un po’ come collocare noi in un contesto del genere.

Quindi una doppia influenza, da qui verso l’africa e dall’africa verso di noi, verso l’occidente?
(A.V.) Esatto!

Una curiosità: come mai cercavi horror movie africani?
(A.V.) Ma perché a me piacciono molto il lettering, le locandine, le grafiche… e quindi son finito su questo sito di poster e grafica anni ’70 e c’era la locandina di questo film, I Hate My Village appunto, con due tizi strani disegnati male e ho chiamato subito Fabio [Rondanini] e gli ho detto che secondo me quella grafica e quel nome erano perfetti per una band.

Ho letto una vostra dichiarazione in cui sostenete che la musica africana e le sue ibridazioni saranno la musica del futuro. Perché? Non lo è sempre stata la musica del futuro? Più o meno tutti i generi dell’ultimo secolo provengono non direttamente dall’Africa, ma da musicisti di origine africana.
(A.V.) Le origini sono quelle, ma non si può dire che le grandi innovazioni del novecento vengano dall’Africa, direttamente intendo. Per “musica del futuro” noi intendevamo gruppi come i Tinariwen che alla fine degli anni 2000 hanno portato una ventata di musica nuova e fresca, una drone music con una nota sola, simile all’elettronica, ma con uno stile nuovo. Poi il fatto che loro lo facessero già da vent’anni dimostra che siamo stati lenti noi a recepire. Infatti, se ci fai caso, molti musicisti si sono avvicinati alla musica Tuareg, vedi i Red Hot Chili Peppers, perché è un modo diverso di fare musica. Non si segue il solito strofa-ritornello-special-strofa-ritornello.

A proposito di questo, ho letto che avete modificato un po’ le strumentazione per avere un certo sound…
(Marco Fasolo) Allora, l’idea era quella di creare fin da subito una forte identità, che fosse immediatamente riconoscibile. Per prima cosa abbiamo cercato di suonare il più possibile, perché volevamo fotografare quell’istante di Fabio e Adriano, soprattutto in cerca della take buona subito, senza fare strani “magheggi”, non mi piace quella situazione in cui devi sceglierne una. Quindi suonare fino a che non arriva quella buona senza stare per forza a salvare tutto su chilometri di nastro. Poi abbiamo aggiunto delle sovraincisioni, ma il meno possibile, per rendere tutto un po’ più organico, che basso e chitarra risultava un po’ scarno. Ovviamente abbiamo usato certi strumenti, certi microfoni, certi riverberi, ma in maniera lieve, quello che si sente sono le mani dei musicisti.

“Siamo cani che si sono annusati e si sono piaciuti.” È ancora così? Non voglio sapere le dinamiche interne al gruppo, che tanto non me le direste, mi riferisco più al futuro di questo progetto. Tutto potrebbe finire com’è nato o intravedete un futuro favorevole?
(M.F.) Ma guarda, non lo so, io un futuro lo vedo, ma chiaramente bisogna vedere certe dinamiche: gli impegni di tutti, la voglia, i tempi ecc, ma secondo me ci sono i presupposti per continuare e quindi anche per un disco nuovo. Visto il riscontro poi sarebbe stupido non farlo, poi non si sa mai eh, però ecco un nuovo disco non lo vedo fra vent’anni!

Chiuderei chiedendovi quali sono i vostri ascolti preferiti, la comfort zone, sia del passato che del presente.
(M.F.) Allora, io musicalmente sono poco attivo, ma non poco curioso, nel senso che mi innamoro di una cosa quando mi arriva, non sono uno che va a cercare, anche perché sono molto ottimista come persona, ma da un punto di vista della creazione, dell’arte, non sono molto ottimista, visti gli ultimi sviluppi. Non cercavo vent’anni fa, figurati ora, ma ho molta “fame” e quando mi arriva qualcosa che mi fa andare in risonanza allora mi innamoro. L’ultima volta mi è capitato dieci anni fa, con i Broadcast, mi sono proprio innamorato di Haha Sound, che a oggi ritengo uno dei migliori dischi: mi catapulta in un altro mondo, perché a me la musica piace quando mi fa astrarre tutto ciò che riguarda me stesso, non mi interessa nulla dei film, dei libri, dei dischi che raccontano il quotidiano. Mi piace il concetto dell’alternativa, come nei sogni, non mi piace la brutta o la bella copia della realtà. Invece uno molto ottimista e molto ricercatore è Adriano.

(A.V.) Chiaramente ci piace il rock! È fuori di dubbio, però ognuno con la propria inclinazione. Però per esempio tutti siamo innamorati di Beck, che è uno di quegli artisti che incarna l’immagine dell’artista moderno ma curioso, affascinato dal passato ma che fa sempre dei passi avanti. Negli anni ’90 è stato un innovatore. Ma in realtà ascoltiamo tantissime cose, Fabio per esempio è innamorato anche della scena nuova, la trap, l’elettronica. Alberto [Ferrari] è un altro che con la musica si fa dei grandi viaggi, lui in primis è un artista originale, quindi la musica se la fa, se la immagina, come Marco appunto. Da ragazzini ci piacevano i Caius, per dire, ma ora ci potremmo ascoltare anche un album di Justin Bieber [ride], siamo curiosi, se c’è qualcosa che ci incuriosisce la ascoltiamo. Siamo ascoltatori molto affamati.

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