Diario americano: house negro o field negro, ovvero pensieri sulla condizione di mamma che non lavora fuori casa

In diarioCult, Weekend

Chiacchiere tra amiche: entrambe mamme, entrambe scrittrici, entrambe dipendenti economicamente dal marito. E viene in mente Malcolm X, sì il grande leader afroamericano che spiegava la differenza tra gli house negroes che tutto sommato accettavano la propria condizione e i field negroes che non hanno mai smesso di combattere per la libertà. Paragone improprio? Leggete qui…

Stasera sono uscita con Mary, la mamma della migliore amica di Emma. È una donna straordinaria: scrittrice di un certo successo, con i piedi ben piantati per terra, viene da una famiglia irlandese di undici figli, con un padre severo e una mamma religiosa e sempre stravolta. Ha sposato Chris, che è bello come il sole e tiene corsi di scrittura creativa alla Boston University. Hanno quattro figli meravigliosi, una bella casetta vicino al nostro appartamento e un’empatia fuori dalla norma. Non ci frequentiamo molto, ma ogni volta che passo una serata con loro, torno a casa ripromettendomi di chiamarli più spesso.

Ci siamo incontrate in un pub irlandese a Central square, una piazza sempre piena di vita a pochi isolati da casa. Sono arrivata un po’ in anticipo, ed ero contenta perché volevo parlare con Mary delle riflessioni che avevo appena finito di scrivere sul fatto che una mamma come me (ma ce ne sono tante) abbia sacrificato anni della sua vita per occuparsi della casa e dei figli senza che questo lavoro sia in qualche modo riconosciuto come tale e, men che meno, retribuito. Certo, avevo scritto, la mia è una situazione un po’ diversa, perché non ho fatto semplicemente la mamma di tre figli, ma mi sono occupata a tempo pieno di uno di loro, Luca, che ha una forte disabilità che richiede un’enorme mole di energia e di tempo. Da quando ha quattro mesi, Luca è seguito da terapisti, da medici e da avvocati e sono stata io a dirigere ogni incontro, ogni decisione presa negli ultimi ventun anni della sua vita. Tutto questo mentre cercavo di fare del mio meglio per occuparmi anche delle sue due sorelle, delle responsabilità domestiche e di tutto quello che una famiglia richiede. Non so come, sono riuscita nel frattempo a ottenere una laurea in sociologia e a iniziare una modesta ma emozionante carriera come autrice. Il mio impegno nei confronti di Luca è stato riconosciuto come lavoro, e cioè retribuito, soltanto al compimento della sua maggiore età, quando i servizi sociali hanno stabilito che seppure anagraficamente fosse un adulto, non era in grado di essere autosufficiente e pertanto aveva bisogno di una badante, o caregiver per chi parla inglese. Da allora, oltre a essere sua madre, sono anche la sua badante e pertanto ho cominciato a ricevere uno stipendio. Dimostrazione, questa, del fatto che il mio impegno quotidiano, sia fisico che emotivo, avrebbe avuto diritto a una retribuzione fin dall’inizio, perché non è cambiato di una virgola quando mio figlio è diventato maggiorenne. Nel mio sfogo, pensavo anche a come invece mio marito abbia passato questi ventidue anni a lavorare per diverse società, in cui ha imparato un mestiere che gli ha permesso di guadagnare sempre di più, di essere apprezzato e di stare in mezzo ad altre persone. Il fatto che la mia sia una situazione in cui la maggior parte delle mie conquiste sia legata ai buoni risultati ottenuti dai miei figli, che mi fanno piacere ma che non mi danno nessuna libertà economica è per me molto degradante: per assicurarmi un futuro senza preoccupazioni economiche, per esempio, devo sperare che mio marito non mi molli per un’altra donna o decida di non pagarmi gli alimenti, altrimenti sarei povera in canna, in mezzo a una strada.

Esponevo tutti questi miei pensieri alla mia amica, con la foga di chi sa di essere dalla parte della ragione: le dicevo che non è giusto che il mio lavoro non sia considerato retribuibile e che io abbia dovuto abbandonare la possibilità di una vita indipendente e le confessavo la mia paura che il mio futuro dipenda dalla fedeltà di mio marito.

Lei mi ha ascoltato, sorseggiando una birra chiara, e poi mi ha detto che invece lei si sente estremamente privilegiata del fatto che suo marito vada a lavorare e che lei possa stare a casa a scrivere, senza doversi preoccupare di come potersi mantenere, e che le soddisfazioni che ha non vengono solo dai suoi libri, ma anche dal successo dei suoi figli e che anche io dovrei essere felice di poter fare quello che mi piace senza dover andare tutti i giorni in un ufficio a fare le stesse noiosissime cose che tocca fare ai nostri mariti. Le ho risposto che per quanto io mi senta estremamente privilegiata, mi sentirei molto più a mio agio se potessi essere autosufficiente, ma lei mi ha assicurato che Dan è una brava persona e che mai si innamorerà di una donna più bella e più giovane di me.

Mentre parlava mi è venuto in mente quando Malcolm X distingueva gli schiavi in due categorie: gli House negroes, che vivevano nella casa dei loro padroni, erano quelli che si accontentavano di ciò che avevano: un tetto, del cibo, dei vestiti, un lavoro. A loro non interessava la ribellione, erano soddisfatti, perché non si potevano immaginare di essere indipendenti. Poi c’erano i Field negroes, quelli che odiavano la propria condizione e che erano pronti a morire per la libertà loro e dei compagni. Anche se mi toglierebbe il saluto se glielo dicessi in faccia, Mary è in un certo senso una house negro: vive una realtà tranquilla, che le permette di fare quello che vuole e cioè scrivere, anche se questo significa non avere una libertà economica (si sa che scrivere non fa diventare ricchi fino a quando non si diventa Stephen King) ed è soddisfatta della felicità che le persone attorno a lei conquistano. Io invece sono una field negro: non sarò mai contenta fino a quando i miei diritti non saranno conquistati e fino a quando il mio lavoro non sarà remunerato e i miei sacrifici riconosciuti. Non voglio porre la fiducia di un futuro tranquillo sulle crisi di mezza età di mio marito e voglio poter scegliere se stare con lui senza dover pensare se posso permettermelo. Le conquiste dei miei figli mi rendono fiera: soddisfano la mamma che è in me, ma non la donna. E forse i field negroes erano in qualche modo soddisfatti quando il raccolto era abbondante, ma a loro non veniva comunque in tasca nulla.

 

Tornando a casa dalla mia serata ho sentito il peso della difficoltà per noi field negroes di far capire al mondo che il nostro dovere di mamme non basta per renderci delle donne indipendenti. E d’un colpo mi è salita l’ansia solita che mi tiene schiava ormai da tanti anni. Me ne sono andata a letto in silenzio, lasciandomi alle spalle questa notte così prepotentemente americana.