Keith Haring a Milano. Cosa resterà di questi anni Ottanta?

In Arte

Sotto l’intonaco di una casa milanese, nella centralissima via Laghetto, è riemerso un murales che ha ottime possibilità di essere un’opera realizzata da Keith Haring, di passaggio in città nel 1988. L’autore della scoperta, Giulio Dalvit, ha visitato per Cultweek la mostra sull’artista, in corso a Palazzo Reale: ecco le sue impressioni .

Pare sempre più difficile. Inesorabilmente più difficile, scrivere una recensione di una mostra bella a Milano. Ma saremo noi che siamo dei criticoni? Noi a cui non va bene mai niente? I critici, l’élite, la torre eburnea e i soliti destinatari di distopici urli contro-?
Non può essere colpa degli artisti, perché gli artisti sono artisti, e non c’è niente da dire. (E non sarà il caso di mettersi a dimostrare, una volta ancora, che Keith Haring sia un artista). Forse i curatori, allora? La mostra su Keith Haring è una nuova occasione mancata.

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Keith Haring, Untitled, 1983

Poco tempo fa – ed è una cosa di cui sarebbe meglio parlare – a Milano è stata scoperta un’opera presumibilmente di Keith Haring.
Nel riscoprirla è anche venuto fuori che forse di opere di Keith Haring a Milano ce ne sono anche altre. Una forse è sotto i muri del cesso di un McDonald’s di periferia.
Studiando quegli anni, si scopre che di persone a Milano che hanno conosciuto Keith Haring ce ne sono tante, ancora vive. E che nel 1984, a Milano, Keith Haring aveva fatto una mostra – bellissima – alla galleria di Salvatore Ala. Aveva anche dipinto tutto uno store di Fiorucci. E nei suoi diari, Keith Haring, parlava di Milano, parla del ristorante Il Grissino di via Tiepolo, che è ancora lì. Quando era in città, a volte andava al Conchetta, si drogava, faceva festa. Sembra un’altra città, a scorrere quelle pagine.

fig. 1 – Keith Haring, parete A (con confusione di casa Moratti), acrilico su muro, 1988
Il murale attribuito a Keith Haring in via Laghetto (con confusione di casa Moratti), acrilico su muro, 1988

Allora uno pensa: che bello! Si fa, a Milano, una mostra su Keith Haring. Non sembrerebbe, ma è proprio il posto giusto, e l’occasione è ghiotta per rivedere il rapporto con la città di un grande mito degli anni ’80. Ma anche per rivedere un po’ che cosa pensiamo degli anni Ottanta in generale. Cosa stava succedendo in Italia e nel mondo? Non è che da questo osservatorio microscopico – perché Milano, tutto sommato, è microscopica –, ci possa essere modo di capire Keith Haring in un modo diverso?

E invece no. Le aspettative sono abortite. Le opere di Salvatore Ala ci sono in mostra, ma non si racconta niente di quegli anni magici. Non ci sono foto di Keith a Milano. Non ci sono foto dello store di Fiorucci. Non si ricostruisce dove sono finiti i pannelli dei camerini staccati e venduti all’asta. Non si intervistano le persone. Al confronto, il Keith Haring Show di dieci anni fa alla Triennale sembra una mostra del MoMA. Il catalogo è sempre il solito coffee-table book. Non si nomina, nemmeno per sbaglio, l’opera lasciata a pochi metri, in via Laghetto.

oster della mostra di Keith Haring presso la Galleria Salvatore Ala, 1984
Poster della mostra di Keith Haring presso la Galleria Salvatore Ala, 1984

“Eh ma magari non è autentica” – dirà qualcuno. Verissimo, ma non si capisce perché la città tutta si sia potuta scatenare in una querelle attributiva sul Caravaggio del mercante Turquin,  esposto a Brera accanto alla cena in Emmaus, e su Keith Haring no. Si poteva pensare magari di organizzare una piccola conferenza, qualcosa; qualcosa – dico – per parlare del possibile ritrovamento dell’unico murales di Haring sopravvissuto in Italia oltre a quello (straordinario) di Pisa.

Ma veniamo alla mostra. Le opere esposte, spesso, non sono proprio le migliori. Le cronologie sono distrutte e solo alla fine si intuisce qualcosa della formazione di Haring, ma poco dell’estenuante percorso tecnico e calligrafico, dello studio profondo che sta dietro la sicurezza affilata del suo tratto e la solidità intellettuale del suo discorso. Il percorso pseudo-tematico non solo non aiuta a comprendere l’identità dell’artista, ma la censura. Le signore per bene si saranno scandalizzate per qualche pisello in giro, ma c’era molto, molto di più da vedere. Qualche pruderie ha tenuto lontani gli eccessi. Ma soprattutto c’era di molto, molto peggio da dire.

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In un paese in cui – e Milano è in testa – tra il 2006 e il 2014 la percentuale di persone che passa da aver contratto l’HIV ad avere l’AIDS conclamato senza accorgersene è passata dal 20,5% al 71,5%, forse c’era da parlare un po’ di più di malattia. In un periodo in cui le persone tornano a sentirsi dire dagli amici che amano e che li circondano quel fatidico “sono malato”, forse si doveva cogliere l’occasione per fare un po’ più di informazione. E anche – perché no? – per stendere qualche bilancio culturale.

Dietro quell’acronimo, A-I-D-S, si cela un’ecatombe che ha trascinato nella bara 14 milioni di persone negli ultimi vent’anni del Novecento. Tra queste c’era gente come Freddie Mercury, Emile Ardolino, Pier Vittorio Tondelli, Isaac Asimov, Michel Foucault, Liberace, Anthony Perkins, Félix González-Torres, Robert Mapplethorpe, Rudolf Nureyev, David Wojnarowicz, Bruce Chatwin… e quanti, quanti altri che lavoravano nel mondo dell’arte, della musica, della cultura? Quanti che scrivevano, cantavano, suonavano, dipingevano? Quanti giovani morti troppo presto? Quanti, insomma, che avrebbero fatto il mondo migliore sono stati strappati al mondo prima del tempo?

Keith Haring About Art, Exhibition view at Palazzo Reale, Milano, 2017
Keith Haring About Art, Exhibition view at Palazzo Reale, Milano, 2017

Chi crede che l’arte e la cultura possano cambiare il mondo – lo so, siamo sempre meno –, non può non pensare che al mondo una generazione intera di creatività è stata quasi strappata, e ci ha lasciato tutti più poveri. E se il mondo oggi è un posto così poco bello, forse è anche per questo.

Ma il discorso, forse, non interessa a chi si appropria di Haring e lo mette accanto ai calchi della Colonna Traiana o a degli improbabili trittichetti Old Masters. Qual è l’intento? Dimostrare che Keith Haring è colto? Davvero siamo ancora qui? Davvero abbiamo bisogno di stimolare questa conversazione da Bar Sport sul se, come e perché e quando e in che modo “disegnare sui muri” è arte? Al – gratta gratta il fondo del barile – “quello lo so fare anch’io”?

Cascano davvero le braccia, non si riesce nemmeno ad arrabbiarsi. Però poi uno ci prova, a immaginarsi la stessa mostra al MoMA, dove, fino a pochi giorni fa è andato per qualche mese in loop il video intimamente provocatorio della Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin, ovvero una delle più straordinarie opere d’arte degli ultimi cinquant’anni. E pensa che ci sono mostre che fanno piangere in un modo, e mostre che fanno piangere in un altro.

 

Keith Haring. About art, a cura di Gianni Mercurio, Milano, Palazzo Reale, fino al 18 giugno.

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