È poesia? Guccini e le canzoni, a proposito di un eterno quesito

In Musica

Umberto Eco non aveva dubbi e lodò le qualità poetiche dei suoi versi, Valerio Magrelli esortava a non confondere poeti e cantanti. L’occasione per fare il punto sulla vexata quaestio è l’uscita di “Canzoni”, una bella antologia di testi del cantautore modenese curata dalla studiosa di letteratura italiana Gabriella Fenocchio

E ancora è notte e ancora scrivo. Non so neppure io per che motivo, forse perché son vivo… Il motivo c’è, devo scrivere di Francesco Guccini – il Maestrone, come lo chiamano i fedeli molti – e delle sue canzoni. Ma se devi scrivere delle sue canzoni finisci per riascoltarne qualcuna, vediamo se è come la ricordavo ti dici, e una canzone tira l’altra e finisci per trascorrere la giornata fra un brano e un amarcord, poche parole e poche musiche accompagnano il ciclo di un’esistenza come le sue, così mi sono perso e ritrovato annotando qualcosa ma senza buttare giù neppure una riga, e adesso mi metto a scrivere, quando è tardi, e per le strade scivolano sguardi di gente che ha sol fretta di tornare, e i cinema si chiudono ed i caffè si svuotano.

L’occasione è l’uscita di una sua antologia (Canzoni, Bompiani, pagg. 336, 20 euro). Detta così non è niente di speciale. Da trent’anni e passa siamo abituati ai versi di cantautori e rocker antologizzati: da Savelli, Lato Side, Arcana, Einaudi, Feltrinelli, dimentico senz’altro qualche sigla editoriale. E invece no, l’evento è da segnare, perché a Guccini è toccato l’onore di essere introdotto, nonché annotato e commentato canzone per canzone, da una studiosa di letteratura italiana, Gabriella Fenocchio, che è stata allieva di Ezio Raimondi e ha dedicato studi e libri ai giornali letterari del Sei-Settecento, a Beppe Fenoglio e a Vittorio Alfieri.

Giustificando la scelta di pubblicare i testi come se avessero vita autonoma e il rischio di esporre una galleria di cornici senza quadro, la curatrice scrive: «Una scelta naturalmente voluta, e condotta con la convinzione che questi testi… possano autonomamente e a buon diritto collocarsi nel panorama poetico del Novecento italiano, non solo per la qualità dell’elaborazione formale ma nondimeno per la densità letteraria e i molteplici echi intertestuali di cui la gran parte delle parole risuona. D’altro canto, se è vero che lo statuto della canzone si identifica con l’intreccio di parole, musica e voce, in molti casi appare piuttosto evidente che al testo possa essere riconosciuta una vita autonoma, soprattutto quando, depositato sulla pagina, sia in grado di svelare con maggiore intensità la propria fisionomia letteraria».

Insomma, Francesco Guccini come un classico contemporaneo, scusate l’ossimoro. Che fosse un classico, d’altronde, lo diceva un suo concittadino di molti talenti, Edmondo Berselli, del quale è acuto il rimpianto: «Qualcuno potrebbe trovarlo un cantautore macchinoso, con canzoni a quattro ante, gravato di troppa cultura, nutrito di troppi vocabolari. Ma Guccini è un maestro: un artigiano che cura le sue creature come farebbe un ebanista con un mobile, un restauratore con una cornice. Il fatto è che le canzoni di Guccini, quelle vecchie e quelle nuove, contengono tutte una specie di elemento fatale, un andamento inevitabile, quella essenzialità che è tipica dei classici».

Rimettendo la palla al centro, però, riaffiora l’eterno quesito, la vexata quaestio: la canzone è poesia? Se ne è variamente discusso e se ne continua a discutere, in anni recenti la querelle ha raggiunto il calor bianco con l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan, e ognuno dei contendenti rimane sulle proprie posizioni. Chi è convinto di sì, come per esempio Roberto Vecchioni, ricorda che la “lirica” è, nell’età classica, forma di poesia cantata con accompagnamento musicale, con la lira appunto, e che la poesia nasce così. Che gli stessi poemi omerici venivano intonati dai rapsodi e che, nel Medioevo, cantavano i loro componimenti amorosi trovatori e trovieri e minnesanger. Anche se è vero, aggiunge Vecchioni, che il verso della canzone semplifica rispetto alla poesia, usa metafore più dirette e in qualche modo, grazie al conforto della musica, predispone il destinatario alla ricezione del testo e del suo senso. Chi sostiene il contrario, per esempio Valerio Magrelli, usa una metafora gastronomica: il testo delle canzoni è un ingrediente della torta, come la margarina, ma chi mangerebbe margarina a cucchiaiate? E continua, Magrelli, lodando la bontà della torta (Dylan, Guccini, altri) ma aggiungendo che, presi da soli, i versi delle canzoni spesso “fanno ridere”.

Chi ha ragione, chi ha torto? Scrivere versi per una canzone è, senz’altro, “poesia strumentale”: con le zeppe, i riempitivi, i ritornelli («Non ci sono refrain nelle poesie di Montale» dice Cristiano Godano dei Marlene Kuntz), il montaggio delle parole, l’uso delle ripetizioni e delle interiezioni che servono a renderle cantabili. Ma ripetizioni e formule stereotipe (l’aurora dalle dita rosate, il mare colore del vino, il pieveloce Achille) esistevano già nei poemi omerici per facilitarne la memorizzazione. E le gabbie metriche e le forme chiuse, penso al sonetto, non sono altrettanto costrittive? Non si dà il caso, in letteratura, di centinaia di mediocri o pessimi sonetti (penso alla lunga voga del petrarchismo) censiti con scrupolo nelle storie letterarie, mentre i versi delle canzoni hanno la sorte che un tempo veniva riservata agli attori, indegni di essere sepolti in terra consacrata? Questioni di merito, senz’altro: la poesia ha uno statuto, la canzone ne ha un altro. Ma, si vorrà convenire, anche questioni di bottega quando non di recinto: come se tu facessi una splendida torta, giusto per girare intorno alla metafora di Magrelli, e ti dicessero: sì, d’accordo, ma non sei un pasticciere, le torte si fanno in pasticceria. Dove magari trovi torte meno buone della tua.

Era convinto che Guccini fosse un poeta Umberto Eco: «Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione; la sua poesia è dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio far rimare Schopenhauer con amare!» Lo faceva in una delle canzoni degli esordi, Il frate, ritratto di un dropout che preannunciava la sua «gente che è di casa in serie B», le vite immemori non baciate dalla Storia. E il gusto delle assonanze e delle rime difficili e spesso preziose (rabbia-scabbia come in Dante, cribro-libro come in Petrarca e Ariosto) gli è rimasto.

Più esitante sullo status di poeta lo stesso Guccini: «Malinconie discrete che non sanno star segrete/ le piccole modeste storie mie/ che non si son mai messe addosso il nome di poesie» (La canzone delle situazioni differenti, 1974, che è un bell’esempio di montaggio poetico di amori e spezzoni di vita a flashback e flashforward, di autobiografia cifrata à la Montale, e contiene echi discreti e filtrati, ma percepibili, di Omar Khayyam, della Terra desolata e dei Fleurs du mal). E, altrove, nell’ironica e autoirridente Via Paolo Fabbri 43 del 1976: «Jorge Luis Borges mi ha promesso l’altra notte/ di parlar personalmente col persiano/ ma il cielo dei poeti è un po’ affollato in questi tempi/ forse avrò un posto da usciere o da scrivano».

Ma l’usciere Guccini, il “genio minore” (la definizione è sua), che poeta sarebbe, se fosse un poeta? Lo ha analizzato e definito a fondo l’amico e collega Roberto Vecchioni: «Guccini è un “cantapensiero”, è un “cantadubbio”, il più alto, il più vero, il più sparpagliato e sincero che si conosca… È, il suo, un pensar alto e sottile, restio a concedersi e ben lungi dall’essere consolatorio… Ma proprio in questa “dubbiosità” pronta a farsi cosmica sta la sua grandezza… Ha sintetizzato, esclusivizzato il disequilibrio, l’incertezza, il mistero esistenziale del Novecento figlio della decadenza rimbaudiana e poi pascoliana, e dell’espressionismo, dell’io incarcerato di Breton, del negativo dubbio occidentale, così prorompente da Leopardi a Montale».

Parole impegnative, che i ricchi apparati di questa antologia avvalorano. Parola, se non poesia, tutt’altro che ingenua, quella di Guccini. Ricca di figure retoriche: di chiasmi, ipallagi, anafore, epifore, metafore, di straordinarie sinestesie (penso al “lucido scirocco” della canzone omonima, allo “schiocco del sole su un campo di grano” della montaliana Quello che non…, al “ticchettare del tuo buonumore” di Farewell). Verseggiare ricco e sontuoso, il suo. E ad avvalorarne lo status di “giocoliere di parole” (Samantha) c’è l’aneddoto del manager Renzo Fantini, che gestiva anche Paolo Conte e lo rimproverava di usare termini troppo difficili. Per fargli dispetto, Guccini inseriva almeno una parola impossibile in ogni suo disco: di cribro si è già detto, basterà qui ricordare rovaio, effemeridi, rorida, protomedico, nell’album di congedo del 2012 L’ultima Thule addirittura l’anfesibena, mitico serpente del deserto libico citato da Dante che ha una testa a ciascuna delle due estremità.

Se il giocoliere e l’erudito non fanno necessariamente il poeta, tutta poetica è l’attitudine a un versificare sorvegliato e ardito al tempo stesso: che scardina l’apparato tradizionale e codificato delle strofe, delle sillabe che formano il verso e delle stesse rime, ma è ricco – oltre che di rime – di assonanze, rime all’orecchio e rime interne. Come, viene da dire per citare l’esempio più illustre del nostro Novecento, Eugenio Montale.

Del pari, tutta letteraria e arricchita da una costante frequentazione con i maggiori e i minori di molte letterature è quasi tutta la sua produzione. Che cita apertamente ma senza esibizionismi (in Odysseus ci sono Carducci e Pascoli, Dante e Foscolo e D’Annunzio, nella bellissima Bisanzio Procopio di Cesarea e l’amato Eliot) ma sorprende e incanta soprattutto quando il rimando è più discreto e quasi impercettibile. Prendiamo una delle sue canzoni più celebri, Incontro: in quelle “stoviglie color nostalgia” c’è Gozzano, in “il cuore di simboli è pieno” avverti l’eco di Baudelaire: “L’homme y passe à travers des foréts de symboles”.

Gabriella Fenocchio, nelle note e nei commenti, ha rintracciato molte delle ispirazioni di Guccini: il Carducci dell’Inno a Satana per la locomotiva-mostro e delle Odi barbare per gli addii alla stazione, Eliot (“nasce Cristo la tigre” da Gerontion, per La canzone dei dodici mesi). E ancora Gozzano, Montale, Marino Moretti, il Borges gauchesco e quello ossessionato dagli specchi, Joyce, Allen Ginsberg (Dio è morto), Folgore di San Gimignano e Cene de la Chitarra, Masters, Pascoli, Gadda, Machado, Orazio, Seneca, Ungaretti, Swift, Petrarca e Paul Auster, Virgilio.

Giocoleria ed erudizione: bastano a fare un poeta? Per quanto non sufficienti da soli, sono prerequisiti necessari perché, a meno di non cullarsi nel mito dell’istintività e dell’artista ingenuo, ogni opera è fatta di biblioteche. «Niente di più originale che nutrirsi degli altri» scriveva Paul Valéry «ma bisogna digerirli. Il leone è fatto di pecore assimilate».

Quel che rende tale un poeta, oltre alla ricchezza e alla qualità estetica della sua elaborazione, oltre alla densità e alle “pecore assimilate”, è la coerenza e la necessità delle sue tematiche: la sua costanza, la sua “durata”. Dagli esordi negli anni ’60 fino al deporre la chitarra nel 2012, quest’intima coerenza in Guccini non è mai venuta meno: l’elogio del dubbio, del “può darsi che io sbagli”; l’accorata (ma talora veemente) etica del restare fedeli a se stessi fuori dai conformismi, dai qualunquismi e dalle facilonerie morali; la “vita senza scopo” e il tempo “che sgocciola” e che sfugge; l’ancora di salvezza delle “radici”: di luogo (la montagna, Pavana, gli antenati), ideali, di cultura. E un canzoniere amoroso “in assenza” destinato a interlocutrici lontane nel tempo e nello spazio come le Clizie e le Volpi di Montale (una sola canzone sua ricordo di amore appagato, Vorrei).

 

Non so se Guccini sia un poeta e io, del resto, non sono un critico. So che ho cominciato ad ascoltarlo quando avevo tredici anni (nel 1966, con Auschwitz incisa dall’Equipe 84, quando di Shoah quasi non si parlava), che non ho più smesso e che è bello avere l’occasione per dire grazie.

In uno dei suoi ultimi dischi, Ritratti del 2004, il Maestrone ha riassunto il suo lavoro in Una canzone. Se non è poesia, gli assomiglia.

La canzone è una penna e un foglio

così fragili fra queste dita,

è quel che non è, è l’erba voglio

ma può essere complessa come la vita.

La canzone è una vaga farfalla

che vola via nell’aria leggera,

una macchia azzurra, una rosa gialla,

un respiro di vento la sera,

una lucciola accesa in un prato,

un sospiro fatto di niente

ma qualche volta se ti ha afferrato

ti rimane per sempre in mente

e la scrive gente quasi normale

ma con l’anima come un bambino

che ogni tanto si mette le ali

e con le parole gioca a rimpiattino.

La canzone è una stella filante

che qualche volta diventa cometa

una meteora di fuoco bruciante

però impalpabile come la seta.

La canzone può aprirti il cuore

con la ragione o col sentimento

fatta di pane, vino, sudore

lunga una vita, lunga un momento.

Si può cantare a voce sguaiata

quando sei in branco, per allegria

o la sussurri appena accennata

se ti circonda la malinconia

e ti ricorda quel canto muto

la donna che ha fatto innamorare

le vite che tu non hai vissuto

e quella che tu vuoi dimenticare.

La canzone è una scatola magica

spesso riempita di cose futili

ma se la intessi d’ironia tragica

ti spazza via i ritornelli inutili;

è un manifesto che puoi riempire

con cose e facce da raccontare

esili vite da rivestire

e storie minime da ripagare

fatta con sette note essenziali

e quattro accordi cuciti in croce

sopra chitarre più che normali

ed una voce che non è voce

ma con carambola lessicale

può essere un prisma di rifrazione

cristallo e pietra filosofale

svettante in aria come un falcone.

Perché può nascere da un male oscuro

che è difficile diagnosticare

fra il passato appesa e il futuro,

lì presente e pronta a scappare

e la canzone diventa un sasso

lama, martello, una polveriera

che a volte morde e colpisce basso

e a volte sventola come bandiera.

La urli allora un giorno di rabbia

la getti in faccia a chi non ti piace

un grimaldello che apre ogni gabbia

pronta ad irridere chi canta e tace. 


Però alla fine è fatta di fumo

veste la stoffa delle illusioni,

nebbie, ricordi, pena, profumo:

son tutto questo le mie canzoni.