Il cielo d’Islanda

In Letteratura

Ari, protagonista di “Grande come l’universo” (Jón Kalman Stefànsson), scrittore che ha abbandonato scrittura e famiglia, torna in Islanda per la malattia del padre e per riannodare i fili dell’esistenza e dell’orma lasciata da tre generazioni della sua famiglia. Romanzo corale e famigliare, ci restituisce tutte le sfumature dell’Islanda, in un andirivieni fra passato e presente.

Il termine saga è probabilmente l’unico, insieme a geyser, ad aver varcato i confini dell’isola che comunemente chiamiamo Islanda e di cui ignoriamo in larga parte storia e lingua, e ad essere diventato un termine internazionale, spendibile per definire ormai strutture narrative e tematiche molto diverse tra di loro.

Figlio del luogo, dei suoi racconti, delle tradizioni e perché no delle sue superstizioni è naturalmente Jón Kalman Stefánsson, che con Grande come l’universo, riprende quella saga  iniziata con I pesci non hanno gambe, pubblicata da Iperborea tra il 2015 e il 2016. Il protagonista Ari, scrittore che ha abbandonato scrittura e famiglia torna dalla Danimarca a Keflavik nella parte occidentale dell’isola ufficialmente per la malattia del padre, ma in sostanza, come il romanzo racconta, per riannodare i fili dell’esistenza e dell’orma lasciata da tre generazioni della sua famiglia. Nati pescatori nella parte est, la vocazione letteraria delle donne, e non solo, contribuisce al cambiamento di costa e di attività delle generazioni successive attraverso conflitti e ferite difficilmente sanabili con l’orgoglio e il silenzio.

Il tempo reale della vicenda non occupa che due giorni, ma il continuo intreccio di piani temporali (30s, 70s, 80s) fanno da cornice a personaggi persi nella nebbia della storia, trascritti a penna nei ricordi dei viventi attraverso la poesia e la scrittura. Tutto ciò rende la narrazione come un racconto continuo che parte dal favolistico “tanto tempo fa” per arrivare all’Islanda di oggi, quella post crisi economica e politica. Storia privata e collettiva si fondono senza che Stefánsson si nasconda dietro una tesi da dimostrare o a risposte calate dall’alto e in questo senso le riflessioni sulla storica ingerenza statunitense (Keflavik cresce intorno alla base Nato) non possono in alcun modo essere scorporate dal discorso, naturalmente intimo e poetico che pone l’accento sui rapporti personali e sul complesso e complicato tentativo di comunicare di padri e di figli.

Come se a La famiglia Winshaw si togliessero riferimenti espliciti sulla vita politica e sociale del Regno Unito, lo scrittore islandese lavora di sottrazione e gli unici riferimenti a personaggi storici sono nell’ambito della vita culturale dell’Isola. Cantanti rock con passato da portieri di calcio, pastori poeti e scrittori, molti scrittori: l’Islanda è la patria dei poeti – chiunque scrive, dalla madre di Ari alle sue zie, dalla nonna paterna al fratello morto del padre. Non importa che sia un’unica poesia nella vita, una serie di racconti prima della morte improvvisa, che siano lettere dal mare o che siano diari, l’importante è la traccia che lascia la scrittura, che solca i silenzi e dona consistenza ai misteri. Chi scrive si pone al di là delle convenzioni della società che si va costruendo attraverso la pesca, l’industria oppure la sempre presente base Nato, apre un varco e un conflitto con chi quell’esperienza non la condivide, ma ne traccia comunque la peculiarità.

In una lunga lettera della nonna materna a Gunnar Gunnarsson scrittore, monumento nazionale, nella quale si chiede all’intellettuale se sia opportuno che il figlio, che mostra una certa inclinazione nei confronti della scrittura e nei momenti liberi fa il pescatore con il padre, debba sprecare le sue attitudini rischiando di essere infelice, si tocca il nodo centrale dell’esperienza collettiva islandese e il punto nevralgico del dedalo di informazioni che il racconto ci offre. Il fatto di essere una terra ai confini del mondo, che per secoli è stata scarsamente abitata, lontana dagli Stati Uniti come dall’Unione sovietica e dalla stessa Europa, ha consentito all’isola e alla sua gente di conservare un istinto duale. Da una parte l’istinto di conservazione – e chi ha visto il documentario di Flaherty L’uomo di Aran, anche se non è girato in Islanda, sa di cosa si parla. Dall’altra parte, l’istinto di creare, di osservare il mondo e raccontarlo per sfuggire alla monotonia del lungo inverno. Il freddo e l’inverno polare fanno da contraltare alla bellezza dell’Aurora boreale.

Il ritorno a casa di Ari è anche una sorta di scelta di campo. Abbandonato famiglia e scrittura si è posto quasi inconsapevolmente ai margini del conflitto interno alla sua famiglia e all’isola intera: si sceglie consapevolmente di essere pescatori, oppure creatori, ma abbandonare la barca non si può. L’unico della famiglia ad essere diventato uno scrittore “ professionista” non può abbandonare la sua vocazione e lasciare alla deriva l’epopea della sua famiglia che è sostanzialmente il racconto della società islandese lungo quasi un intero secolo. Glielo indicano le lettere e i diari della nonna Margrèt che vengono recapitati al padre con trent’anni di ritardo, glielo impone il sogno-racconto che fa la madre a lui bambino in letto di morte. Come detto, racconto è anche mistero e soluzione, quindi non è necessario che i contorni rimangano nell’alveo della realtà, il sogno e la magia hanno piena cittadinanza nella scrittura di Stefánsson. Ancora lo implora inveendo il padre, che nonostante nella sua vita non sia stato in grado di farsi complice delle esperienze del figlio, non sa capacitarsi come lui abbia deciso di smettere con famiglia e scrittura, ma soprattutto glielo indica il narratore, che come sempre nei romanzi dello scrittore islandese, merita una citazione a parte. Si fa personaggio e accompagna il protagonista durante le fasi della sua crescita fisica e spirituale: è con lui quando viene colpito da bambino dal pugno del padre, è con lui durante la lavorazione del pesce nelle estati della giovinezza, è con lui durante i concerti rock e gli anni ottanta di Keflavik, è il coro greco che si umanizza e indirizza non solo il lettore ma lo stesso protagonista alla sua responsabilità, ad assumere la consapevolezza di essere l’unico in grado di raccogliere la sfida di non lasciar morire il canto e il racconto di una famiglia, la consapevolezza e l’obbligo morale di raccontare una storia che bisogna raccontare per sfuggire alla morte, perché è proprio questo che la scrittura è in grado di fare. Sopravvivere alla morte.