Nel mondo di Serra e Bisio solo i padri hanno parola. E i figli? Si “sdraiano”

In Cinema

Francesca Archibugi porta sullo schermo il best-seller del giornalista dell’amaca con molti attori in forma (a parte il protagonista, Cochi Ponzoni, Antonia Truppo, Gigio Alberti e il giovane Daddo Bacchini) e uno sguardo un po’ “romano” sulla Milano d’oggi. Tra cantieri ed happy hour, scuola e televisione. Ma nel conflitto generazionale finisce per trovare ascolto solo il punto di vista dei vecchi

Inizia in grigio, quello di un’alba a Milano, grigia come la luce riflessa dai grattacieli di Garibaldi, l’asfalto di Gioia e i lavori in corso, o il vestito di una ragazza che torna a casa all’alba con un calice tra le dita, forse esito di una serata di bagordi che fatico a immaginare nella settimana milanese devota al lavoro e alla sobrietà. Grigia anche come la barbetta incolta di Claudio Bisio. Questa è la Milano raccontata da Francesca Archibugi nel suo ultimo film Gli sdraiati, adattamento del memoir di Michele Serra uscito da Feltrinelli. “Per i sopralluoghi Milano l’ho girata da ‘terrona’, in bicicletta”, dichiara la regista durante la conferenza stampa al “pregio” liceo Manzoni, dov’è stato scelto tra migliaia di studenti milanesi uno dei protagonisti, Gaddo Bacchini e dov’è ambientata parte della storia. Aggiungendo che per lei, al cinema “spesso i ritratti migliori sono fatti da persone che non la abitano”, questa città. Uno sguardo vergine, chiaramente romano, che ne arrotonda, allarga, sfuma le rigorose linee rette e i secchi spigoli, in cui addirittura si sbircia un interno, un uomo che si sveglia nel proprio appartamento: cosa che di rado succede a Milano, una città di eremiti, come diceva Montale, un posto dove gli interni sono sempre preclusi agli sguardi curiosi.

Non è solo questo il territorio straniero in cui la Archibugi si avventura: di per sé l’adattamento è una specie di invasione sempre rischiosa, in cui spesso si percepisce che uno sta parlando una lingua non sua. In più questo film parla di un rapporto tra padre e figlio, altro territorio esplorato dal mito in infinite declinazioni sempre tragiche e sempre appannaggio di un misterioso codice delle emozioni maschile. La regista, insieme al co-sceneggiatore Francesco Piccolo, prova a individuarne gli snodi emotivi e immaginarne quelli narrativi, partendo da una specie di flusso di coscienza in cui un padre scrive una lettera senza risposta al figlio, un tentativo disperato di dichiarare guerra a un “nemico” che neanche si preoccupa di rispondere.

Quindi ecco Giorgio Selva, una specie di Fabio Fazio con lo stesso spirito di buona volontà da boy scout, e suo figlio Tito, una specie di bruto monosillabico di una bellezza mozzafiato che lascia i calzini in giro, non risponde mai al telefono (“Ma dove cazzo sei?”, così inizia il romanzo di Serra) e non accetta mai di andare a camminare con lui al colle della Nasca. Tito frequenta un liceo del centro di Milano e divide il suo tempo tra le case di mamma e di papà. Conosce Alice, biondina emo dagli occhi bistrati e se ne innamora, cominciando a trascurare la banda dei “Froci” suoi truffautiani compagni di classe con cui condivide tutto, corpo, risate, merendine, droga e chiavi di casa, con grande rassegnazione di Giorgio che li trova troppo sporchi e irriverenti, ma con cui ostinatamente cerca un appiglio, uno scambio, incontrando però solo un simpatico muro di gomma adolescenziale.

Si scopre poi che Alice è figlia di Rosalba, una straordinaria Antonia Truppo con le meche tamarre, che custodisce il piccolo segreto del nostro boy-scout. Lì comincia il tormentato percorso del protagonista che, come nella migliore tradizione della commedia sulla borghesia italiana, porterà a un momento di rivelazione di verità ripristinando il mondo iniziale e sancendo un sostanziale nulla di fatto. In tutto questo, sempre come nella tradizione, spiccano i caratteristi Cochi Ponzoni che intepreta Pinin, il padre dell’ex moglie di Selva, un innocente tassista milanese con il “coeur in man” e un gran complesso di Peter Pan, Gigio Alberti, l’amico avvocato consigliere fidato e una Federica Fracassi prestata al cinema che rende benissimo lo stereotipo di borghese milanese che si apre l’agriturismo in campagna per “fare il vino”.

Un cast straordinario in cui sottotraccia si percepisce la scelta dell’Archibugi – regista di relazioni familiari, “un contagio in cui ci si scambiano i virus” – di utilizzare attori che non fossero troppo distanti biograficamente dalle relazioni narrate. Bisio, amico di lunga data di Serra, si era identificato già nella lettura del libro in bozza: un genitore post-sessantottino che aveva vissuto un aspro conflitto di potere coi genitori e non voleva in alcun modo riproporlo al proprio ragazzo, pur sapendo di sbagliare perché, come raccomandano i terapeuti, “non bisogna assolutamente diventare amici dei propri figli”. Anche Cochi dice d’aver pescato nella propria intimità e così la Truppo, cresciuta a Secondigliano, che fa un’outsider probabilmente meridionale, ma cerca di camuffare l’accento:

L’Archibugi ha un talento straordinario a rendere ogni viso un intenso paesaggio ed è nobile il suo sforzo di lavorare sul realismo senza passare dal naturalismo, anche se la lingua, soprattutto quella degli adolescenti, risente della penna e dell’artificio e troppo spesso mi ha ricordato i dialoghi imbarazzanti dei film sui giovani di Muccino. Ma non è un problema di regia, è proprio un problema di cannibalismo generazionale. Se infatti le generazioni dei genitori di Bisio o di Serra ricevevano dai propri genitori un secco no e un grande silenzio, i padri 50enni di ora oppongono al silenzio dei propri figli un divorante monologo di richieste e dubbi, confusioni e angosce: in cui ancora una volta il genitore – in particolare il 68ino, l’eterno presente, che si è divorato il passato e il futuro, Cronos e tutti gli dei dopo di lui – è l’unico a proporre un discorso in punta di parola, l’unico ad avere una platea in ascolto, lasciando al proprio generato l’ammutolimento dell’impotenza o la sola alternativa che è capace di opporre alla petulanza paterna il “fatti i cazzi tuoi”, che è poi il contraltare fallico al “dove cazzo sei?”.

L’adulto sessantottino, inconsapevole portatore sano di paternalismo soft, impone anche una sola interpretazione della sensibilità: secondo Serra “nel mio libro non c’è l’indifferenza, non si cauterizzano le ferite e questo film rispetta quest’assoluta mancanza di cinismo”. Ma per me è proprio quello il problema: l’unilaterale definizione di sensibilità, che invece dovrebbe passare da un dialogo, porta a definire insensibile qualsiasi tentativo, legittimo da parte di un adolescente, di sottrarsene. La possibilità dell’indifferenza, quella che mi rende libero di diventare adulto passando per l’eliminazione del mio genitore. E invece no, ecco qui il genitore cannibale e presenzialista.

La romanzesca guerra futuristica immaginata da Selva, nel romanzo che sta scrivendo, tra Vecchi e Giovani, in cui ovviamente l’eroe è un vecchio che cerca di mettersi dalla parte dei giovani, è solo il primo spunto di un confronto che finalmente viene portato alla luce, seppure offrendo profondità e tridimensionalità solo all’adulto. Gli unici momenti in cui Tito osa salire in alto, come sul tetto del Manzoni o sul colle della Nasca, sono i momenti in cui questo Isacco dall’aria strafottente si fa male o viene sacrificato: la scena finale, in cui Tito finalmente si sdraia sul Colle della Nasca su una lastra con Giorgio poco lontano che fuma una sigaretta, è un momento di sospensione che preannuncia un sacrificio, il sacrificio del giovane. Avrei preferito che su quell’altare sacrificale ci finisse la commedia ironica sulla borghesia di sinistra italiana che ha urgente bisogno di nuova linfa e temi più radicali.

PS: Sul femminile non spenderò una parola, perché secondo me sarebbe stato più onesto astenersi da certi contentini – la prima presidente donna che va ospite in studio da Selva – pur rimarcando un certo stereotipo di donna assente – la madre di Tito che si vede solo nello schermo del citofono e verso la fine per pochi minuti – o gatta morta come Rosalba, Alice o l’isterica barista della Rai. Su quello penso che ci vorranno ancora generazioni e generazioni di film e di autori/autrici.

Gli sdraiati, di Francesca Archibugi, con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni, Gigio Alberti, Antonia Truppo, Donatella Finocchiaro, Barbara Ronchi, Federica Fracassi, Sandra Ceccarelli, Ilaria Brusadelli, Chiara Chiarelli, Gianluigi Fogacci

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