“Free To Run”, quando l’hobby della maratona diventò un movimento sociale

In Cinema

Pierre Morath, ex atleta, storico e giornalista svizzero, ricostruisce nel suo film la battaglia per il diritto a gareggiare e correre nelle strade delle grandi città, combattuta soprattutto delle donne, che solo nel 1984 a Los Angeles hanno visto la “loro” maratona riconosciuta come sport olimpico. Nel film le immagini della prima gara collettiva della storia (Central Park, New York, 1972), le imprese di alcuni grandi, da Nöel Tamin a Steve Prefontaine, e la lotta della ribelle numero uno, Kathrine Switzer

Free to Run di Pierre Morath, ex atleta, storico e giornalista svizzero, presentato in anteprima a Milano a inizio maggio nel “Festival dei Diritti Umani”, racconta la pratica della corsa attraverso immagini di repertorio e testimonianze di ex campioni, molti dei quali hanno vissuto un periodo di lotta al cambiamento che ha riguardato anche questo sport. La corsa è un’attività che unisce tantissime persone in tutto il mondo, e lo fa usando il corpo come mezzo d’espressione. Soprattutto per questa ragione, ma non solo, negli ultimi decenni si è assistito a una serie di eventi che, prima della definitiva affermazione di tale sport e tale pratica, si potrebbero definire esempi di oscurantismo e discriminazione.

Negli anni ’60, per esempio, chi correva per le strade delle grandi città come New York, realtà su cui il regista si concentra maggiormente, era considerato strano, bizzarro, e spesso veniva fermato dalla polizia, o doveva nascondersi, magari buttandosi nei fossi laterali delle strade al passare di un’auto delle forze dell’ordine, per non essere additato come un freak. L’unico momento in cui alle persone era permesso correre insieme, era la maratona di Boston. Ma potevano partecipare esclusivamente gli uomini. E qui entra in scena la figura di Kathy Switzer, donna dalla forza e dal coraggio esemplari, che nel film racconta la sua significativa storia: si iscrisse infatti alla maratona, usando un nome maschile, perché voleva partecipare per tutte le donne, ma durante la corsa fu riconosciuta e fermata da un addetto dell’organizzazione che cercò di strapparle la pettorina; difesa dal fidanzato, riuscì ad arrivare al traguardo, ma venne poi squalificata e radiata dalla federazione americana di atletica leggera.

 

Kathy, come molte altre atlete, è stata vittima di discriminazione, e ora ha deciso di farsi portavoce di questa ingiustizia nel mondo dello sport. Aggiunge, per spiegare quell’episodio: “Non ero una sufragetta o una militante, volevo solo correre”. Sin dal 1928 alle donne non era permesso partecipare a gare di corsa che superassero i cento metri, e con le motivazioni più bizzarre, come il fatto che risultasse un’esperienza troppo emotiva o che potesse provocare danni all’utero. La Switzer è una delle testimoni di un movimento di lotta per l’uguaglianza che è iniziato nei primi anni ’60 e si è protratto per almeno una ventina d’anni.

Durante questo periodo, vi sono stati grandi cambiamenti, dovuti anche a figure di spicco che hanno contribuito all’emancipazione di questo sport: uno fra tutti Nöel Tamini, ex corridore che ha fondato in Svizzera, nel 1972, la rivista Spiridon, giornale, interamente dedicato alla corsa a piedi e nato con l’obiettivo di battersi per i diritti di tutti, in primis delle donne; esso incarnava una nuova filosofia della corsa, vista come un’esperienza anche filosofica, spirituale, quasi mistica e a stretto contatto con la natura.

Un episodio che ha cambiato in modo indelebile il significato della corsa è stata la vittoria di Franck Shorter nel 1972, alla prima maratona tenutasi a Central Park a New York: si muoveva con una facilità straordinaria, una naturalezza estrema, e la corsa iniziò da qual momento a non essere più vista solo come sport di sofferenza e sforzo, al punto che molti da allora iniziarono a voler partecipare. Nel 1976 furono chiusi i cinque quartieri principali della Grande Mela per la prima vera maratona tenuta per le strade della città, e fu un momento storico perché prima sarebbe stato impensabile permettere alla gente di correre al di fuori di uno stadio o un parco.

Durante gli anni ’70 emerse anche il carisma di Steve Prefontaine, il “James Dean della corsa”, che a soli ventun anni iniziò la sua carriera di corridore durante il college e poi ne fece una vera e propria professione, diventando il detentore di tutti i record americani dell’epoca. Perché, a differenza di quando accadeva in molte altre discipline, nella corsa gli sportivi non erano pagati, e Prefontaine si fece portavoce dei diritti degli atleti fino alla morte precoce, a soli 24 anni. Insieme ad altri, “Pre” è rimasto un simbolo di forza e coraggio ancora oggi.

La pellicola, oltre a questi nomi, racconta numerose altre storie, da quella di Bobbi Gibb a quella di Fred Lebow, fondatore e ideatore della maratona newyorkese, frammenti storici di un cambiamento radicale che ha portato a grandi conquiste, come l’approvazione ai Giochi Olimpici del 1984, a Los Angeles, della maratona femminile: è stato uno tra i segni di accettazione della donna e della sua fisicità. E le molte testimonianze sono unificate, nella versione italiana, dalla voce narrante di Linus.

L’interesse di Morath è mostrare al pubblico quanto un hobby possa trasformarsi in una forma di elevazione spirituale, attraverso le parole e la passione dei suoi personaggi. Per molti di loro correre rappresentava, e rappresenta anche oggi, una modalità di espressione. Confermata da parole come queste: “Quando si corre in solitudine, si è da soli con l’universo, ed è un miracolo ogni volta”. Infine la maratona è diventata un simbolo di realizzazione personale: è un palcoscenico su cui ognuno può salire, correndo in mezzo ai grandi campioni e finendo la gara sulle proprie gambe. E tutto questo costituisce, lo confermano le molte testimonianze, un senso di gioia interiore irrinunciabile.

Free to run, di Pierre Morath, con Bobbi Gibb, Kathrine Switzer, Noël Tamini, Fred Lebow, Steve Prefontaine, Franck Shorter.

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