Da Venezia 73, le quattro ragazze di Piccioni e un tuffo nell’immortalità

In Cinema

“Questi giorni” racconta il viaggio a Belgrado, reale e psicologico, di quattro ragazze in cerca del loro futuro nell’età adulta, tra speranze di nuove vite e turbamenti dell’adolescenza ormai perduta. Era in concorso alla Mostra del cinema, come “Spira Mirabilis” di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, ambizioso itinerario nella spiritualità dell’uomo, sempre alla ricerca della sua traccia da lasciare nel mondo

Questi giorni di Giuseppe Piccioni è un film corale che racconta il passaggio obbligato e senza ritorno dalla fanciullezza all’età adulta di 4 ragazze ventenni. Quattro giovani donne, 4 amiche: Liliana (Maria Roveran), Caterina (Marta Gastini), Angela (Laura Adriani) e Anna (Caterina Le Caselle), partono in auto verso Belgrado per accompagnare Caterina, che ha deciso di trasferirsi nella capitale Serba per lavorare in un hotel. A unire le quattro protagoniste non sono tanto affinità caratteriali o esperienze di vita, ma le abitudini, le passioni occasionali, i contrasti inoffensivi e i sentimenti coltivati in segreto. La loro amicizia è forte, unica e irripetibile, come unici e irripetibili saranno i pochi giorni trascorsi a Belgrado.

Il viaggio delle quattro ragazze è si geografico, ma soprattutto introspettivo. E il regista si serve di tale espediente narrativo per raccontare le inquietudini, le complicità, le risate e soprattutto i contrasti e le lacrime delle protagoniste, nel processo di crescita e ricerca interiore che avviene in ognuna di loro. Mentre viaggiano verso Belgrado, l’abitacolo dell’auto si trasforma in una bolla in cui vagano finalmente liberi i loro pensieri, e la cinepresa, con estrema delicatezza, rivela segreti e desideri che si muovono sottopelle, soffocati spesso da una routine che le riporta ai loro doveri, a dimostrare, anche perdendoci il sonno, ciò che amici, professori, genitori e fidanzati si aspettano da loro. Per tacere invece sulle piccole e grandi crisi esistenziali che le coinvolgono, sperando forse di nasconderle anche a loro stesse.

In quei giorni trascorsi a Belgrado, all’apparenza non succede nulla, ma invece tutto é cambiato. Tornando a casa, Liliana, Angela e Anna non saranno più le stesse, il tempo breve ma intenso trascorso insieme ha innescato in loro un veloce cambiamento e si scorge ad occhio nudo quanto stiano diventando donne.

“Questi giorni”, vissuti e volati via sono la prova che “conviene ciò che accade”, e come dice Caterina all’inizio del film «se qualcuno ci avesse detto, in quei giorni, che quelli erano i “nostri giorni”, irripetibili, e che eravamo dentro un’eterna promessa che il tempo vissuto dopo non avrebbe mantenuto, noi non gli avremmo creduto, avremmo pensato che invece il nostro tempo fosse ancora davanti a noi, che il meglio dovesse ancora venire…». Ma alla fine qualcosa si rompe e ciò che resta da fare è riattaccare i pezzi, riprovarci sempre e non arrendersi mai.

Questi giorni, in concorso alla Mostra di Venezia, gioca con colori e registri diversi, dalla commedia al road movie, fino al melodramma, e l’occhio della macchina da presa segue, asseconda i movimenti, gli sguardi delle protagoniste e attraverso i loro occhi, i loro gesti va in cerca di verità nascoste, sfumature sottili. Un’andamento irregolare, intermittente, che corrisponde benissimo al tempo in cui vivono le protagoniste del film, un presente precario e incerto e un futuro sospeso.

Il film è privo di colpi di scena, momenti emotivi esasperati: bastano gli sguardi delle quattro ragazze che fissano l’obiettivo per trascinare lo spettatore dentro la narrazione, creando un forte rapporto empatico, un’ alchimia ricca di stimoli e suggestioni, facendogli rivivere il disincanto, la consapevolezza che, come il paradiso è di Milton, anche l’infanzia ormai è perduta. Piccioni racconta una delle stagioni più significative per ognuno di noi, e alla fine del film è come se avessimo rivissuto una parte della nostra vita, forse anche la più dolorosa e difficile, con la speranza e insieme la consapevolezza che se lo vogliamo davvero, il meglio deve ancora venire.

Questi giorni, di Giuseppe Piccioni conMargherita Buy, Maria Roveran , Marta Gastini, Laura Adriani, Caterina Le Caselle, Filippo Timi, Sergio Rubini

Luana Negrin

 

elogio della medusa, essere miracoloso

Ho intervistato qualche mese fa Martina Parenti e mi ha stupito la decisione, quasi sfrontata, con la quale rispose alla mia ultima domanda, a proposito del suo (e di Massimo D’Anolfi) Spira Mirabilis. Una cosmogonia per immagini in 4 parti, di tre ore (disse allora, in effetti il film finito sfiora le 2), con Marina Vlady a più riprese impegnata nella lettura di passi di Borges, e che ha per tema l’aspirazione umana all’immortalità. Ma non sarà un progetto un po’ troppo ambizioso? “Forse, ma altrimenti, che ci stiamo a fare, noi registi?”. Vedendo il film, coi suoi molti pregi acustici e visivi e qualche difetto di ritmo e impaginazione, ma soprattutto la sua aspirazione malickiana al “bigger than life”, a rappresentare lo slancio davvero più alto del genere umano, trascendere la sua singola vita terrena, ho trovato, tradotto in immagini, quel proposito. E più di una volta con una potenza evocativa ed emotiva non comune. Scusate se è poco.

Spira mirabilis nasce in qualche modo dal loro precedente (fu a Locarno 2015, ha un po’ girato poi nel circuito d’essai) La fabbrica del Duomo, musical laico su come si ricostruisce l’armonia, anche spirituale, dell’insieme di statue collocate sui più alti pinnacoli della cattedrale milanese, attraverso le tecniche del loro restauro, protagonisti decine di marmisti, muratori, carpentieri, fabbri, restauratori, orafi: è diventato ora uno dei quattro racconti di immortalità di questo nuovo film, accanto alla cronaca e leggenda della lotta degli indiani d’America che celebrano Crazy Horse come il loro guru spirituale, alla documentazione delle ricerche del genetista giapponese Shin Kubota sulla medusa rossa, animale perfetto, miracoloso in quanto capace di riprodursi sempre e in qualunque condizione, trasformandosi in movenze “immortali” (caso unico in natura) e alle maniacali, minuziose avventure sonore di Felix Rohner e Sabina Scharer, una coppia di “alchimisti moderni”, scultori-inventori di strumenti metallici, come il gubal, capaci di riprodurre note sublimi e un po’ subliminali.

Per Parenti-D’Anolfi, che affiancano queste storie, nel film mescolate continuamente, senza una logica rigidissima in verità, agli elementi primordiali (terra-Duomo, aria-musica, acqua-medusa e fuoco-lotta dei Lakota), la tensione all’immortalità si presenta come la parte migliore del genere umano (“intendiamoci”, disse Parenti severa, “siamo lontanissimi dal new age”) e scelgono di metterla in scena, se così si può dire, usando con parsimonia la parola per concentrarsi su luci e note, spesso sorprendenti, ipnotiche, a tratti anche sfinenti. Giudicare un film così con metri critici semplificati (bello-brutto, banale-intelligente, divertente-noioso) è abbastanza inutile e anche un po’ impossibile. Certo è un’esperienza unica, per i modi della rappresentazione e l’ambizione quasi smodata del tema, ma anche per l’invito esplicito a non razionalizzare fino in fondo il proprio approccio, lasciandosi in qualche modo andare all’emotività, all’immediatezza del flusso del messaggio. Un film astratto, post-figurativo, una strada per uscire dal canone classico del cinema in tre atti con prologo ed epilogo. Forse un esperimento irripetibile. Ma non è certo un difetto.

Spira Mirabilis, di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi

Gabriele Porro