Fecondazione artificiale: tutta la storia, appassionante e controversa, prima di Louise Brown

In Weekend

40 anni fa nasceva Louise Brown, la prima bimba in provetta: oggi sono 8 milioni i nati nel mondo. La Società europea di riproduzione umana ed embriologia che ha appena concluso il suo 34° congresso a Barcellona sottolinea il forte aumento dell’uso di queste tecniche: ogni anno nascono mezzo milione di bambini come risultato di due milioni di cicli. In Europa il paese più attivo è la Spagna, mentre, secondo la società scientifica, rispetto alle altre nazioni in Italia la disponibilità di trattamenti di fecondazione assistita è “considerevolmente minore”. ‘Culle di vetro’ è il libro di Margherita Fronte dedicato alla storia di questa grande e dibattuta scommessa scientifica e umana

È solo dopo la nascita di Louise Brown (la prima bambina concepita in “provetta” ormai 40 anni fa) che la possibilità di concepire indipendentemente da un rapporto eterosessuale diventa di pubblico dominio in tutto il mondo. Ma in molti laboratori (di biologia, veterinaria, medicina) e in alcune cliniche gli studi che la preparavano erano in corso da almeno un secolo.

Ci accompagna nel percorso storico-scientifico un libro di piacevole lettura –Culle di vetro. Storia della fecondazione artificiale di Margherita Fronte (Enciclopedia delle donne) – che parte dalle teorie più antiche sulla modalità di formazione e sviluppo dell’embrione, si destreggia fra aneddoti e sperimentazioni per giungere al recente Nobel per i “padri” di Louise: Edwards (il biologo) e Steptoe (il ginecologo).

Non manca un cenno ad Aristotele o a Tomaso d’Aquino, spesso citato dai cattolici favorevoli alla fecondazione in vitro (FIV), per aver sostenuto – d’accordo col filosofo greco – che prima del 40° giorno dalla fecondazione i maschi e prima del 90° le femmine, non erano esseri umani a pieno titolo. Fin dall’antichità dunque era l’embrione al centro dell’attenzione di scienziati e filosofi. E opportunamente la storia si sviluppa fra gli studi di embriologia (in laboratorio, prima con gameti o embrioni animali, poi umani), le procedure che permettono di recuperare e studiare il materiale umano, e le applicazioni cliniche finalizzate al superamento della infertilità di coppia. Il noto resoconto del primo “esperimento” clinico, a dir poco grottesco, riguarda una giovane donna che verso la fine dell’800 viene inseminata a sua insaputa col seme di un giovane e aitante studente. I tempi del consenso informato erano lontani, il paternalismo medico non era in discussione e il patriarcato godeva di ottima salute: a qualche anno dalla nascita del bambino, il medico informa il marito e entrambi decidono di non rivelare la cosa alla signora.

A distanza di un secolo saranno invece le donne le protagoniste della riproduzione assistita: non solo le più disponibili a sottoporsi a cure e interventi per superare l’infertilità di coppia, ma le più attente alla implicita conseguenza della procreazione medicalmente assistita (PMA). Per diventare madre non c’era più bisogno di un uomo, bastava uno spermatozoo, mentre per diventare padre c’è ancora (per ora) bisogno di una donna.

Il perfezionamento delle procedure cui oggi si ricorre (salvo impedimenti di legge) avvenne fra polemiche e difficoltà che per un certo tempo restarono nell’ambito degli “addetti ai lavori”. Fino agli anni ’50 del secolo scorso le ricerche, in mano prevalentemente maschili, suscitarono scarsa attenzione pubblica e ancor meno critiche: le donne erano prima di tutto madri e gli studi finalizzati al superamento della sterilità erano benvenuti. Ma le donne erano anche la “fonte” della materia prima più preziosa, perché scarsa e difficile da estrarre: gli ovociti. E bene fa Margherita Fronte a esemplificare le modalità degli studi, dove brillavano scienziati cattolici; come quello delle centoundici donne cui doveva essere asportato l’utero e a cui venne chiesto di avere un rapporto qualche giorno prima dell’intervento in modo da recuperare embrioni precoci da studiare – e ne ottennero 34.

La biografia di Edwards – che nel libro occupa il capitolo centrale – non manca di tratti divertenti, dalla laurea in agronomia “con un voto non lusinghiero” alla progenie, di cinque femmine, alle sue perplessità di socialista quando apre la clinica privata per la PMA; ma racconta anche la sua determinazione a fronte delle difficoltà che gli venivano da oppositori di ogni tipo. Gli studi di genetica prima, la sua capacità di riunire intorno a sé giovani studiosi interessati alla biologia riproduttiva, l’incontro prima con Molly Rose – ginecologa che gli avrebbe fornito i tessuti umani necessari agli studi, ma rifiutò di comparire fra gli autori della pubblicazione su Nature – e poi con Patrick Steptoe, che gli offrì ovociti maturi prelevati in corso di laparoscopie, segnano la strada che portano prima alla FIV umana (1969) e poi alla nascita di Louise.

Gran parte delle ostilità suscitate dalla notizia del successo nella FIV si trasformò in entusiasmo di fronte alla nascita della prima bambina concepita in laboratorio e delle inizialmente rare nascite (nel mondo erano 15 nel 1981). Il desiderio di diventare madri, la passione conoscitiva di medici e biologi, gli interessi materiali che ruotavano intorno fecero della PMA una pratica sempre più diffusa, mentre la retorica della maternità contribuiva a mettere all’angolo gli obiettori. Oggi si stima che nel mondo siano almeno otto milioni le persone concepite in provetta, alcune già diventate a loro volta genitori e senza ricorrere alla PMA.

Un’avversione decisa venne dalla Chiesa che non poteva tollerare “questo adoperare siringhe e provette e le muffe e gli acidi di un laboratorio per costringere all’incontro i due elementi complementari della vita”, ma non mancarono intralci da chi temeva conseguenze gravi come la nascita di neonati con malformazioni, posizioni critiche di scienziati che vedevano nella PMA il rischio di “un’azione eugenetica efficace e socialmente accettabile” (Jacques Testart) e il pensiero di molte femministe che osservavano con perplessità “l’eclisse della madre” (Maria Luisa Boccia) a fronte del pubblico successo di gameti ed embrioni, per non dire dell’assenza inizialmente di una metodologia clinica sperimentale che andasse oltre il case report dei successi. Si sarebbe dovuto aspettare parecchi anni per la semplice messa in atto di un registro che raccogliesse il numero e l’esito delle procedure – nel 1999 in Europa, nel 2005 in Italia – e perché nascesse una letteratura scientifica.

Mi spiace che dell’elaborazione critica – non contraria! – intorno alla PMA e alle sue ricadute non si dia conto nel libro salvo dare del farneticante a Testart o accostare il pensiero femminista alle critiche della Chiesa riducendolo a un’avversità ideologica.

La riflessione delle donne ha contribuito all’elaborazione dei mutamenti che la fecondazione extracorporea ha prodotto: nelle relazioni parentali, nella percezione di sé, nello stesso immaginario. Margherita Fronte ci parla della scarsità di ovociti e delle difficoltà di approvvigionamento dal corpo femminile, del social freezing – il congelamento degli ovociti- offerto da alcune grandi aziende alle proprie dipendenti per ritardare la maternità, delle fatiche e dei rischi della gestazione per altri, delle opportunità generate dalla ricerca sulle cellule staminali derivate dagli embrioni “soprannumerari”, del tempo e della fatica per giungere a regolamentare la materia. Ma la PMA non parla solo il linguaggio della scienza, della legge o della religione: non è un caso se in Gran Bretagna a condurre il confronto e giungere a una delle legislazioni più liberal e insieme rigorose fu Mary Warnock, filosofa (e baronessa).

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