Fantin mette in opera ristrutturazioni sceniche

In Interviste, Musica

“Il mio compito – dice lo scenografo Paolo Fantin che ha realizzato alla Scala con la regia di Michieletto un Falstaff inusuale – non è solo decorativo, ma è concettuale: si tratta di rendere drammaturgica una scena

In scena al Teatro alla Scala fino al 21 febbraio c’è un Falstaff presentato a Salisburgo, ma milanese in spirito e corpo grazie a un trasloco da Windsor a Casa Verdi, con comari sempre allegre ma decisamente più attempate. Terza michielettata in Scala, dopo un Ballo in maschera in campagna elettorale e La scala di seta con pianta a vista tipo Dogville. Colpevole in ugual misura insieme al regista, nel senso migliore possibile, è Paolo Fantin. Scenografo tra i più contesi al mondo, ma fedelissimo a Michieletto, Fantin è stato e sarà capace di questa e altre ristrutturazioni di opere, disubbidienti solo a un primo sguardo superficiale. E parlando con lui diventa sempre più chiaro che un regista non può nulla senza il suo battaglione sacro.

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C’è mai la curiosità di lavorare con altri registi?
Sono troppo romantico per farlo, anche se qualcuno me lo consiglia. Anni fa mi è capitato, quando avevo appena cominciato. Ma erano registi che da me volevano una semplice ambientazione: qualche bozzetto ben fatto e nient’altro. Invece con Damiano il lavoro è più stimolante e assomiglia a quello che mi immaginavo fin dall’accademia. Il mio compito non è solo decorativo, ma è concettuale: si tratta di rendere drammaturgica una scena, nel senso di uno spazio che deve raccontare una storia.

Come si rende drammaturgico uno spazio?
Serve un’idea in cui credere fino in fondo. Di solito parto dalla musica: ascolto l’opera per conto mio nelle cuffie per capire quale sia il colore giusto. Poi insieme a Damiano cominciamo a lavorare sul libretto, ignorando le didascalie e concentrandoci il più possibile sulle parole, sui personaggi, alla ricerca di quel mondo particolare da costruire in ogni lavoro.

Può fare un esempio?
Mi viene in mente il Trittico, tre opere di Puccini separate in cui ci siamo sforzati di trovare dei legami tra i personaggi: Giorgetta che diventa Suor Angelica, Michele che diventa Schicchi, il bambino che compare in tutte e tre le opere. Con questi elementi abbiamo cercato di montare un’unica vicenda. Poi per la scena abbiamo sfruttato l’elemento del container, che contiene tutte le storie come una matrioska.

Il contenitore è un luogo che ritorna in molti vostri spettacoli, da Suor Angelica a Madama Butterfly, ma anche nella prosa, come in Divine parole. Che cosa rappresenta?
È come una finestra in una finestra. Se già il boccascena è il portale per un mondo diverso, anche lì dentro si schiude un secondo mondo, interiore, che racconta un’intimità dei personaggi sempre in contrasto con la violenza dello sfondo: come il fango in Divine parole o i segni del turismo sessuale in Butterfly. Una stanza per sentirsi al sicuro mentre il mondo fuori ti mette alla prova: un po’ quello che succede da adolescenti.

Sembra una comfort zone del personaggio. Ma è un procedimento diverso da Falstaff, come se i suoi riferimenti cambiassero ogni volta.
Cerco di non avere un linguaggio connotabile, anzi provo a cambiarlo sempre a seconda dell’idea da seguire. In Falstaff per esempio lo spazio non ha niente di astratto né di moderno, mentre ho fatto anche opere con una scena più storica, come Don Giovanni. A volte mi piace immaginare dei luoghi abbandonati, con strati di vita sovrapposti, pieni di ricordi, fotografie e oggetti del passato attraverso cui sentire le emozioni dei personaggi, come nella Donna del lago. Anche la natura mi affascina, ma sempre intesa come natura aggressiva e primordiale: una natura invadente che divora la scena, come nel Flauto magico.

Pensa che si possa rintracciare un elemento comune tra tutti questi spettacoli?
Forse un aspetto che ritorna nel nostro lavoro è la ricerca di uno shock per lo spettatore. Per arrivarci serve uno scontro: uno scontro di linguaggi che provochi un cortocircuito. Secondo me il teatro funziona soprattutto per contrasti. Come nel nostro Falstaff o nel Viaggio a Reims: architetture moderne in cui improvvisamente entrano personaggi in abiti da opera tradizionale. Certo è una sfida trovare ogni volta il brivido della novità anche per i titoli di repertorio, ma è l’unico modo per metterci sempre qualcosa di personale.

Falstaff di Giuseppe Verdi Direttore: Zubin Mehta Regia: Damiano Michieletto Scene: Paolo Fantin Costumi: Carla Teti Luci: Alessandro Carletti Video: Roland Horvath
Falstaff di Giuseppe Verdi Direttore: Zubin Mehta Regia: Damiano Michieletto Scene: Paolo Fantin Costumi: Carla Teti Luci: Alessandro Carletti Video: Roland Horvath

Forse è più semplice con l’opera contemporanea.
È l’unico caso in cui gli spettatori ritornano un po’ bambini, in cui vanno a teatro non sapendo che cosa aspettarsi.

Potrebbe essere l’unico caso di uno scenografo che preferisce mettere in scena un’opera contemporanea all’Aida.
Dipende dall’idea che decideremmo di seguire per un’Aida. Ma vorrei davvero che si scrivessero più opere nuove.

Ed è comprensibile, soprattutto dopo le meraviglie di Aquagranda alla Fenice.
Quell’opera è stata la cosa più vicina a un’installazione che io abbia mai fatto. Anche la musica di Perocco era un’installazione: c’era una storia, ma più come stato d’animo. Ci abbiamo pensato finché ci è venuta l’idea di una “marea sottovuoto”, che si rompe e invade il palco. Perocco ha persino voluto sfruttare il rumore dell’acqua registrando lo scroscio e amplificandolo.

La sua prima installazione nello stesso teatro in cui ha capito che avrebbe fatto lo scenografo.
Lo decisi dopo un Midsummer Night’s Dream. Avevo capito che l’opera, come arte multimediale, mette insieme tutto quello che inconsciamente mi piaceva. Ma è stato soprattutto dopo aver realizzato che ci sono delle persone che per due o tre ore vivono in quelle scene che hai concepito e che hai costruito pensando a loro, alle loro necessità fisiche, al fatto che devono muoversi, sedersi. Una scena teatrale è molto più di un’installazione: è un happening, un’esperienza accompagnata dalla musica, che guida e ispira ogni cosa.

Cosa cambia rispetto al teatro di prosa?
La prosa l’ho conosciuta da poco e vorrei farne ancora. Anche al Piccolo abbiamo messo in scena tre spettacoli, ma mi rendo conto che è un linguaggio ancora da macinare.

Domanda finale ovviamente superflua: cosa sceglie tra prosa e opera?
Non scambierei mai l’opera con la prosa. Senz’altro la prosa mi interessa, anche per alcune piccole idee che vengono e che poi all’opera diventano grandi. Ma manca la musica, che nel mio lavoro è l’elemento di contrasto più importante. Nella prosa il contrasto va costruito da zero e il regista è solo: deve creare tutto dall’inizio e decidere ogni dettaglio senza il supporto della musica. E per me la musica è una guida a cui non intendo rinunciare.

Giuseppe Verdi Falstaff – Teatro alla Scala – Direttore Zubin Metha – Regia di Damiano Michieletto – Scene di Paolo Fantin (repliche 10, 15, 17, 21 febbraio)

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