Vi presento Esther (fa Singer, di cognome)

In Letteratura, Weekend

Una infanzia trascurata, una vita infelice, ma una potentissima voce interiore. Condannata ad essere (tuttora) la sorella di Israel Joshua e Isaac Bashevis, Esther, qui raccontata dalla sua traduttrice, scrive nonostante tutto, scrive miracolosamente. E dimostra quanto può essere dura la vita di una donna di talento

Quanto può essere dura la vita per una donna di talento. Figuriamoci per una donna di talento nata in una famiglia ebraica nella Polonia del primo novecento, da un padre rabbino chassidico e da una madre anaffettiva e sardonica. E figuriamoci per una donna di talento con due fratelli maschi di grande talento e (diciamolo) di poca generosità d’animo, assolutamente non disposti ad assecondare le aspirazioni della Cenerentola di casa.

Quella di Esther Hinde Kreitman Singer è la carriera letteraria di un salmone, costretto a nuotare controcorrente, sfinito, agonizzante, eppure sospinto inesorabilmente in avanti da una potentissima voce interiore.

Oggi, finalmente sappiamo quanto valeva Esther Hinde Kreitman, che però resta condannata a trovarsi una fascetta sui romanzi: “La sorella di Israel Joshua e Isaac Bashevis Singer”. Che ingiustizia. Era lei la maggiore, fu lei la prima a manifestare una vocazione che per Esther era anche la voglia di evadere dal claustrofobico, misero microcosmo cui l’essere femmina l’aveva condannata, con catene invisibili. Sarebbe più giusto apporre una fascetta ai romanzi (qui si parla di  Israel Joshua, ndr): “I fratelli minori della grande Esther Singer.”

Di Esther ho tradotto dall’inglese per Bollati Boringhieri  Diamonds il romanzo uscito in italiano con il titolo L’uomo che vendeva diamanti, e attualmente sto traducendo Deborah. Forse è stata una scelta editoriale strana, perché Diamonds è successivo a Deborah, il primo romanzo della Kreitman (uno uscì nel 1936, l’altro nel 1944). Ma Deborah anni fa era già stato tradotto in italiano, anche se oggi il testo è praticamente introvabile, e dunque si è preferito dare prima spazio a un’opera sconosciuta. E poi L’uomo che vendeva diamanti esercitava un’attrattiva enorme, per una traduttrice avida e incontrollata era come avere un grosso cono gelato e sentirsi dire: “Questo lo mangi dopo!”

Perché questa attrattiva? Per l’ambientazione. Esther nasce e cresce nello shtetl, e poi in un rione ebraico di Varsavia. Sta a Oriente, come i fratelli. Ma poi la vita (vita infelicissima) la porta a Occidente, al seguito di un marito pochissimo amato e a quanto risulta pochissimo innamorato. L’uomo che vendeva diamanti porta a occidente anche noi, prima ad Anversa, e poi a Londra, una Londra che a me è parsa straordinariamente affascinante, con le sue nebbie e il buio perenne in cui si agita un proletariato ebraico che lotta per venire a galla.

La vicenda si svolge a cavallo della Prima guerra mondiale. Siamo appunto ad Anversa, in casa di Gedaliah Berman, commerciante di diamanti. Gedaliah è un ex poverissimo giovanotto dello shtetl. Ha fatto fortuna, è forte, astuto, spietato – ma non privo di debolezze, e dunque non odioso. Vive tra tappeti preziosi e bei mobili, nel lusso, in una costante esorcizzazione della casupola dello shtetl in cui si soffocava nel fetore della miseria e della malattia. Ha una bella moglie, che definiremmo “una povera diavola”, una creatura mansueta e remissiva, pronta a sopportare le intemperanze del collerico marito e i capricci dei due figli maggiori, molli e viziati.

Anversa è un universo ebraico percorso da tensioni tra ricchi e poveri, credenti e apostati, padroni e operai: ma qui non c’è la drammaticità dello shtetl, è tutto meno pericoloso, meno doloroso, più gaudente. C’è anche più spazio per i turbamenti interiori, non troppo soffocati dalla lotta per la sopravvivenza.

Ma in tutto questo fa irruzione la Prima guerra mondiale, e i Berman si trovano costretti alla fuga – come l’intera cittadinanza di Anversa – di fronte all’avanzata dei tedeschi.

Addio agi, addio vita tra i tappeti. Per quanto trattati con ogni riguardo, i Berman sono sempre profughi. Esther Kreitman dimostra un talento che non ha nulla da invidiare a quello di Israel Joshua nell’intrecciare le storie personali con le vicende storiche che muovono gli uomini come marionette. Le sue pagine sulla Londra dell’epoca sono semplicemente magistrali (d’altra parte aveva vissuto l’esperienza in prima persona, perché da Anversa era scappata a Londra insieme alla famiglia). E qui sui Berman cominciano ad allungarsi le ombre. Altro è meglio non dire, per non guastare la lettura.

Come scrive Esther Kreitman? Benissimo, mescolando dramma e ironia. Scrive miracolosamente, potremmo dire, se si pensa che nessuno badò alla sua istruzione, e che la ragazza si formò  studiando di nascosto, nel poco tempo lasciato libero dalle incombenze domestiche. Da quel che si legge sia in Deborah (che ha una forte connotazione autobiografica) sia nelle memorie dei fratelli, la madre di Esther, cresciuta in una famiglia di studiosi non chassidici, era una donna assai colta e intellettuale, ma questa cultura e un cervello sveglio non avevano fatto che acutizzare la sua infelicità e la sensazione di estraniamento rispetto all’ambiente che la circondava: e dunque non le era parso opportuno curarsi dell’istruzione di una figlia, che peraltro trascurava in tutti i modi.

Con Esther il destino non fu certamente benevolo – ma in fondo fu benevolo solo con il terzo dei quattro fratelli Singer, ovvero Isaac Bashevis: Israel Joshua morì ancor giovane, nel pieno della carriera, e il minore, Moshe, che era rimasto in Polonia ed era l’unico sprovvisto di ambizioni letterarie, morì o fu ucciso nel 1944. Con Esther però si accanì particolarmente: era cagionevole di salute e soffriva di problemi mentali che le scorticarono un’anima già troppo sensibile, portandola ad avere veri e propri deliri di persecuzione. E forse queste sue debolezze fisiche e mentali la portarono ad accettare, nonostante in lei ardessero desideri di libertà ed emancipazione, un matrimonio combinato con l’imbelle figlio di un arrogante mercante di diamanti molto simile al Gedaliah Berman protagonista del romanzo di cui parliamo oggi.

Morì semicieca e ignorata e infelice nel 1954, a Londra. Sarebbe stata scoperta oltre vent’ anni dopo, con gloria e apprezzamenti postumi. Come scrisse il figlio Morris Kreitman (traduttore e giornalista con lo pseudonimo di Maurice Carr:) “Se solo mia madre potesse sapere…”

Già, se solo potesse sapere.

Immagine di copertina: Ministry of Foreign Affairs of the Republic of Poland