Con “El Clan” e “Diritto di uccidere” la stagione parte alla grande

In Cinema

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Leone d’Argento lo scorso anno a Venezia, “El Clan” di Pablo Trapero racconta una torbida vicenda di criminalità e politica negli anni della dittatura di Videla. Helen Mirren e Alan Rickman sono due ufficiali inglesi alle prese con la guerra alla jihiad in Africa e l’uso dei droni, tra sanguinosi effetti collaterali e politici preoccupati assai più dalla loro immagine che dal costo umano dei conflitti

Grazie a El Clan, il film di Pablo Trapero che esce il 25 agosto, Leone d’Argento alla scorsa Mostra di Venezia e Goya 2015 al miglior film latino-americano, la stagione 2016-2017 apre davvero alla grande, anche perché non è l’unico titolo da non lasciarsi scappare in arrivo in questi giorni. Il regista argentino, apprezzato a Cannes fin dai tempi di Leonera (2008), si candida qui al ruolo di Martin Scorsese sudamericano, e per più di una ragione. Nel raccontare la torbida storia della famiglia Puccio (dall’efferato patriarca Arquimedes, interpretato dallo strepitoso Guillermo Francella, già nel cast di Il segreto dei tuoi occhi di Juan Josè Campanella, in giù), Trapero disegna una trama di relazioni familiari e politiche chiuse, implacabili, tali da costringere al consenso e al silenzio anche i pochi potenziali personaggi positivi. E lo fa con una progressione di eventi e un ritmo serrato dell’azione che fanno pensare a una versione “latina” dei grandi drama italo-americani del regista di Quei bravi ragazzi, o del Francis Coppola del Padrino. E senza perdere la psicologia, i valori e le incrostazioni di una certa cultura “nera” del suo paese.

Siamo a cavallo della fine della sanguinosa dittatura di Jorge Videla, nell’Argentina di metà anni 80, e per i Puccio, che si sono arricchiti, all’ombra delle connivenze con l’apparato militare grazie a lucrosi sequestri di persona, spesso conclusosi sanguinosamente nonostante i riscatti pagati, la situazione sta precipitando. I nuovi responsabili politici vogliono un paese pulito e pacificato e stanno chiudendo gli uffici pubblici compromessi e tagliando ogni legame con organizzazioni equivoche e/o criminali. Ma questa famiglia, che ha da tempo superato il punto di non ritorno della legalità, sembra non credere davvero che una nuova Argentina più civile sia possibile, e continua con arroganza imprudente la sua indifendibile attività. Fino a una resa dei conti finale che non potrà essere che catastrofica.

Parlare di un film alla Scorsese significa qui anche segnalare l’uso narrativo di una splendida colonna sonora rock (degna di Casinò) e di una violenza esibita che non risparmia lo spettatore nella sua determinazione esplicativa ed espressiva, giocata sui bui e le ombre di una Buenos Aires davvero cupa, in un viaggio senza pause nel cuore e nel cervello di tenebra di un gens urbana che riesce a essere al tempo stesso moderna e antica. “Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese? Al massimo un paio d’anni”, pensano e dicono i Puccio, e forse non solo loro, protagonisti di questa storia ispirata a fatti veri: perseguono con avidità la ricchezza spinti dall’invidia sociale e uccidono giovani rampolli di buona famiglia perché le loro idee nuove mettono in questione molte lugubri convinzioni.

L’altro titolo importante di questo inizio di stagione è Diritto di uccidere (in originale Eye in the Sky), il secondo film in pochi mesi (ma stavolta di produzione, spirito e stile molto british), dopo l’americano Good Kill di Andrew Niccol con Ethan Hawke, che tratta il delicatissimo tema della guerra con i droni. Qui, al centro della vicenda sono il colonnello Helen Mirren, sempre bravissima e il generale Alan Rickman, alla sua ultima, malinconica prova d’attore prima della morte, che s’interrogano via skype, con una buona metà del governo inglese, su una scelta umanamente dolorosa e politicamente molto a rischio. Individuato in una casa di Nairobi un gruppo di fuoco jihadista che prepara attentati dalle prospettive assai sanguinose per la popolazione, potrebbero prevenirlo bombardando la zona: ma c’è un rischio elevato di vittime civili, certo numericamente inferiori a quelle del possibile blitz terrorista, ma superiori per qualità (c’è di mezzo anche una ragazzina povera che vende pane per strada) e visibilità agli occhi dell’opinione pubblica. E questo non sfugge alla tutt’altro che “neutra” sensibilità dei politici.

Controverso almeno quanto il tema che tratta, il film di Gavin Hood, regista di Tsotsi, oscar 2005 al miglior film stranero, non delude per il ritmo serratissimo, la qualità di protagonisti e comprimari, il tema decisamente all’ordine del giorno nel dibattito internazionale. Che vede guerre sempre più mortali per abitanti spesso incolpevoli, “effetti collaterali” da soppesare assai più per calcolo del feed-back politico che per serie considerazioni umanitarie.

Se questi sono i due pezzi forti di inizio stagione, certamente merita una segnalazione, per la sua grazia e la tenerezza con cui si relaziona in primo luogo con il soggetto ma anche con la nostra commedia storica, Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo, in cui l’effettiva genitrice del regista, Silvana Stefanini, un passato di interprete brillante accanto a nomi anche di spicco come Rossano Brazzi, ripercorre le tappe del suo periodo d’oro umano e cinematografico: sul filo della nostalgia, ma sempre con humour e misura invidiabili. Un cinema che un po’ ricorda quello di Gianni Di Gregorio forse, con un pizzico di show-biz all’italiana in più.

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