Diverte il one-man-show di Cumberbatch trasformato in delirio stile Marvel

In Cinema

In bilico tra Escher, “Matrix” e “Inception”, l’actionner “Doctor Strange” dello sconosciuto Scott Derrickson diverte per la follia del racconto abbinata alla scatenata fantasia degli effettisti. Nel narrare arcani eventi legati a un chirurgo dal talento unico, ossessionato dal culto di sé e poi convolto in un incidente che ne cambierà la vita, gli autori esplorano il mondo del magico-mistico accavallando città e capovolgendo appartamenti. In “The Accountant” di Gavin O’Connor un commercialista in odor di malavita indaga sugli ammanchi sospetti di una multinazionale. Accadranno sfracelli, ma noiosi

Fermate il cinema, voglio scendere. O forse invece no (anzi, decisamente no!): però, cavoli, che mal di mare. Nelle sale in cui proiettano il nuovo gioiellino Marvel Doctor Strange, sarebbe opportuno accompagnare allo sbigliettamento un’avvertenza: lasciate perdere la trama. Inforcate gli occhialini 3D (finalmente con una ragion d’essere, dopo pellicole intere in cui era inutile o dava fastidio) e godetevi due ore buone di caleidoscopico spettacolo.

Perché, è vero, si comincia con l’one man show del sempre ottimo Benedict Cumberbatch, capace quasi di strappare all’istrionico rivale Robert Downey Jr./Tony Stark la medaglia al sarcasmo e fascino in casa Marvel, tra alzate di sopracciglio, spocchia sexy e battutine, ma Doctor Strange è soprattutto (o soltanto?) una gioia per l’occhio dello spettatore, soprattutto per quello fanatico delle opere di Escher, di Matrix e Inception, o anche semplicemente delle montagne russe: per più di tre quarti di film, in una sorta di cinematografico play within the play, mentre il Dottore e i suoi compagni e avversari ricorrono ad arcane pratiche mistiche per distorcere i piani della realtà e moltiplicare le dimensioni, gli addetti all’effetto speciale fanno altrettanto su pellicola, scatenandosi a briglia sciolta per accavallare città, capovolgere appartamenti e chi più ne ha più ne metta, dall’inizio alla fine.

In realtà, a ben vedere, qui e là fanno anche capolino accenni e spunti di trama e regia, proseguendo l’ormai consolidata tradizione del Marvel Cinematic Universe di affidarsi a giovani autori più o meno emergenti (in questo caso Scott Derrickson, nel curriculum qualche horror e un brutto remake di Ultimatum alla Terra) con voglia e capacità. Però alla fine anche loro non hanno particolari velleità artistiche e sono pronti piuttosto a uniformarsi a quel mix di scazzottate, devastazione urbana, umorismo e spettacolarità che è ormai un marchio di fabbrica di Stan Lee e soci. Il plot del film sembra ricalcare nelle battute iniziali le medesime premesse del primo Iron Man: uno scienziato (chirurgo, in questo caso) dal talento unico e dalla boria insopportabile ma accattivante, ossessionato dal successo e dal culto della personalità e dunque incapace di stabilire rapporti affettivi duraturi, si trova improvvisamente coinvolto in un incidente che ne pregiudicherà la carriera, costringendolo alla (ri)scoperta di se stesso, degli altri, e di un mondo più vasto di ciò che immaginava.

Da qui in poi si scatena il delirio, visivo e non solo, con un finale (senza spoilerare nulla, ovviamente) da test antidoping allo sceneggiatore. Eppure, incredibilmente tutto regge, vuoi per l’ambizione narrativa pari a quella di un giro sulle giostre (e che giostre!), vuoi per l’ottima interpretazione di tutti i membri del cast. Non solo dell’ovvia star Cumberbatch: Tilda Swinton, ormai rassegnata al trasformismo, è un Antico dalla sorprendente umanità e dalle mille sfaccettature; Rachel McAdams, più che efficace controparte femminile e spalla comica per le gag, mai eccessive, buttate qua e là a stemperare l’azione senza sosta; Chiwetel Ejiofor, partner credibile quanto basta; Mads Mikkelsen cattivo da copione, senza gran carisma ma nel ruolo, per quel che serve.

In definitiva, per certi aspetti, Doctor Strange è un film furbo e coraggioso, e per questo merita quanto raccolto finora al botteghino (300mila euro di incasso solo il primo giorno nelle sale italiane). Coraggioso nell’esplorare un filone, quello magico-mistico, forse anacronistico e per questo finora poco battuto dal franchise cinematografico legato al mondo dei comics. Furbo nel farlo con uno stile visionario e un po’ folle, particolare e accattivante, nel contempo dentro ai ranghi Marvel e fuori dagli schemi di Avengers e simili. Accontenterà chi, pur da fanatico a priori del genere, è anche alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Doctor Strange di Scott Derrickson, con Benedict Cumberbatch, Tilda Swinton, Rachel McAdams, Chiwetel Ejiofor, Mads Mikkelsen

 

Ben Affleck come clint: Due sole espressioni, anzi forse una

Se agli inizi della sua carriera, nell’era Sergio Leone, dicevano malevolmente che Clint Eastwood aveva due sole espressioni, una con e una senza cappello, che si dovrebbe scrivere del Ben Affleck protagonista di The accountant (il commercialista), che porta alle vette più alte del crimine il mestiere tremontiano però sfoggiando un’immutabilità interpretativa assoluta? E la sua potrebbe perfino essere ritenuta una gran prova di acting, dato che nel film di Gavin O’Connor – regista partito nelle fila del cinema indipendente a fine anni 90 ma ora approdato con un certo successo al kolossal actionner da 50 milioni di dollari – dà il volto, decisamente sotto traccia, a un cassiere della malavita (anzi, delle malavite, dal cartello di Sinalunga a vari triadi asiatiche) che vediamo all’inizio bonariamente consigliare poveri padri di famiglia dietro la scrivania di una sorta di Equi-Ohio, ma poi improvvisamente approda alla corte di un magnate della robotica. Deve mettere a posto i conti della sua multinazionale insieme alla collega Anna Kendrick, attrice decisamente in rampa di lancio dopo il debutto con George Clooney in Tra le nuvole, un paio di capitoli della Twilight Saga e il musical Into The Woods. L’ammanco di cassa (una quarantina di miliardi dollari), che ha provocato la sua temporanea, e si presume assai costosa, assunzione, in realtà nasconde terribili maneggi economici e politici. E provocherà stragi.

Il plot, come si dice, è a modo suo pure ambizioso (lui tira avanti, in una roulotte super-lusso però, solo impasticcandosi perché da piccolo era autistico, la mamma se n’è andata presto e il papà ha affidato lui e il fratellino, per l’educazione e il bon ton, a un maestro di karatè), anche se poi perde più di qualche pezzo sul piano narrativo, ma diventa decisamente noioso nei tanti scontri fisici, di vario tipo e sorretti da un ventaglio di arti più o meno marziali e di armi più o meno sofisticate, che sono evidentemente la vera ragione sociale del film. E l’appeal per il pubblico affleckiano di bocca buona.

Si sprecano anche una bellezza espressiva come Cynthia Addai-Robinson e un grande come J. K. Simmons, oscar al miglior attore non protagonista l’anno scorso per Whiplash. E queste sono colpe gravi. G. P.

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