Cose turche: due secoli di rapimenti, desideri, corsari

In Letteratura

Storie di belle rapite dai corsari che finiscono per diventare la trama di un’opera famosa, di sultani terribili e generosi, di una dimenticata migrazione da Occidente a Oriente. Le “turcherie”, di gran moda per due secoli, in un saggio di Luca Scarlini e Federico Maggioni.

La bella italiana, venuta in Algeri

Insegna agli amanti, gelosi ed alteri

Che a tutti se vuole la donna la fa.

 

L’ouverture de L’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini racconta la storia di una bella italiana rapita e fatta prigioniera nel serraglio del malvagio Bey. La maliarda riesce a farlo innamorare e a fuggire con il giovane amante.

Il tema era di gran moda nel Settecento e investiva il teatro, la musica, la danza, la pittura, l’architettura; le chiamavano turcherie e si ricollegavano a mille fatti di cronaca di belle rapite dai corsari. A questo mondo è dedicato Cose turche, di Luca Scarlini e Federico Maggioni (Jaca Book).

La progenitrice di tutte le sventurate-furbette è la splendida Giulia Gonzaga Colonna, signora di Fondi, che scatenò la cupidigia del sultano, che per averla mise a ferro e fuoco la Ciociaria inviando il suo corsaro più crudele, Khair ad-din.

Ludovico Ariosto celebrò le grazie della divina e il cardinal Ippolito l’amò appassionatamente.

Un’altra celebre rapita è la biondissima veneziana Cecilia Venier Baffo che riuscì ad ascendere al ruolo di sultana con il nome di Nur Banu, madre e preziosa consigliera del sultano Murad II.

Fatti storici e fantasie orientaleggianti, opere classiche di Euripide e Plauto, il meraviglioso Ratto del Serraglio di Mozart prestano le loro suggestioni, si mischiano nel delizioso melting-pot che costituisce L’Italiana in Algeri di Rossini, ma c’è anche un fatto di cronaca coeva che, nella genesi dell’opera, può essere stato il primo motore di tutto.

Nel 1805 Antonietta Frapolli Suini, famosa bellezza da Milano, mentre navigava per turismo lungo le coste della Sardegna – meta quanto mai desueta a quei tempi – fu rapita e tenuta prigioniera, insieme ad un’altra ragazza milanese, nell’harem del Bey d’Algeri, Mustafà-ibn-Ibrahim, lo stesso nome del protagonista dell’opera buffa di Rossini. L’identità è comprovata. La bella  fu poi rilasciata senza riscatto, anzi con una ricca dote di gioielli e monete d’oro e nel 1815 poté avere il brivido e l’orgoglio di assistere alla Scala a L’Italiana in Algeri, la trasfigurazione operistica delle sue stesse avventure.

Nei salotti milanesi girava la voce maligna che l’Antonietta Frapolli Suini e la sua amica avessero calcolato tutto nella segreta speranza di farsi rapire; insomma le due dame sarebbero state una specie di turiste sessuali ante litteram.

Durante l’Ottocento, melodrammi e pettegolezzi non sono che il riflesso di un fenomeno sociale largamente diffuso, l’emigrazione cioè da Occidente a Oriente, oggi completamente rimossa.

Fino a pochi anni prima i pirati erano il terrore del Mediterraneo, depredavano le città costiere, trucidavano e rapivano gli abitanti delle coste. Finché nel 1830 l’ammiraglio Guy-Victor Duperré prese Algeri e l’Impero ottomano cominciò a declinare, si trasformò da regno del terrore in un grande suk di mercanzie e di sesso.

Molte persone si trovavano meglio ‘dall’altra parte’, nelle terre degli infedeli, e non si sognavano neanche di voler tornare a casa.

Mancano statistiche attendibili su quanti abbiano mutato fede, le famiglie rimaste preferivano tenerlo nascosto per non essere perseguitate dalla chiesa, che a sua volta preferiva avvalorare la versione che tutti gli italiani fossero come i martiri di Otranto del 1480, che preferivano farsi massacrare dai Turchi piuttosto che abiurare alla fede cattolica. Il fatto è celebrato da Carmelo Bene nel suo visionario e meraviglioso film Nostra Signora dei Turchi.

Censure e rimozioni a parte, le cronache mediterranee sono piene di vicende di famiglie divise tra le due sponde, in primo luogo per le opportunità di lavoro e poi per quella discutibile arte dell’arrangiarsi così peculiare allo spirito italico.

Nel Belpaese cattolico, non si riusciva a non mutare la classe di appartenenza per nessun motivo, ognuno restava per sempre relegato nella misera attività del proprio avo, e alla sua atavica povertà. Nessuna ascesa sociale era possibile, unica eccezione arruolarsi nell’esercito o far parte della chiesa, ma senza grandi protettori la vita restava grama, stipendi e rendite restavano da fame.

Solo l’attività dello spettacolo, tra commedia dell’arte e lo splendente e tragico mondo dei castrati offriva la possibilità di guadagnare cifre mirabolanti, anche se in pochi riuscivano a sfondare e il successo durava poco.

In Turchia, in Iran, nell’Europa musulmana, in Medio Oriente, il destino poteva mutare, potevi diventare pirata e addirittura re, come racconta la ballata di Fabrizio de Andrè, Sinàn Capudàn Pascià ( nell’album Creûza de ma ), dedicata alla paradossale vita del genovese Scipione Cicala, che ebbe grandi onori tra gli infedeli.

Paradossalmente, durante i moti di Indipendenza nazionali fu proprio l’impero Ottomano a offrire rifugio politico ai patrioti e ingegneri, tecnici, artisti e artigiani italiani vi trovavano un impiego più redditizio approfittando dell’impulso a modernizzazione e industrializzazione dei nuovi governi occidentalizzati.

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