Un americano nella Bassa

In Arte

Può apparire bizzarro che un pittore di Providence, Rhode Island sia finito a trascorrere gli ultimi vent’anni della sua esistenza in un convento-cascina a Gudo…

Può apparire bizzarro che un pittore di Providence, Rhode Island sia finito a trascorrere gli ultimi vent’anni della sua esistenza in un convento-cascina a Gudo Gambaredo, nella bassa milanese. Ancora più bizzarro se il pittore in questione, William Congdon, è uno che, approdato a New York sul finire degli anni Quaranta, era amico di Jackson Pollock e Mark Rothko, frequentava Peggy Guggheneim e intratteneva corrispondenza con Igor Stravinsky. Uno che poi avrebbe viaggiato in lungo e in largo per il globo, dipingendo senza requie città e paesaggi dall’Africa al Sud-America, dall’Estremo Oriente alla Cappadocia, dalle nebbie di Venezia alle luci abbacinanti di Santorini. E poi Assisi, e la conversione. Eppure è andata così. Gudo Gambaredo, Parco Agricolo Sud. La «sterminata dolcezza della pianura lombarda» ha avuto la meglio: «non più case, non più strade, non più porti, ma terra, campi, qualche roggia, qualche bosco, qualche albero e il giro delle stagioni»: sono parole di Giovanni Testori, uno che con questa storia bizzarra ha molto a che fare.

In questa storia che più bizzarra non si può, infatti, ha perfettamente senso che una selezione delle opere prodotte da Congdon nei suoi ultimi vent’anni lombardi sia appesa oggi in Casa Testori a Novate Milanese, in quella che fu la residenza dell’artista con i muri che tremano ogni volta che sulla ferrovia, lì a due passi, passano i treni delle Nord, verso i laghi. La mostra si intitola Pianura; l’hanno curata Davide Dall’Ombra e Francesco Gesti. Il pittore americano rientra a buon diritto tra le predilezioni figurative di Testori che a più riprese ne recensì esposizioni e commentò l’opera con entusiasmo e ammirazione; con il senso di una profonda consonanza, di un percorso parallelo reciprocamente riconosciuto. Segnato anche, per entrambi, negli ultimi anni delle rispettive esistenze, dal rapporto con Don Giussani e con il movimento di Comunione e Liberazione. Piaccia o meno.

Nina Leen, "Gli Irascibili" (Front row: Theodoros Stamos, Jimmy Ernst, Barnett Newman, James Brooks, Mark Rothko; middle row: Richard Pousette-Dart, William Baziotes, Jackson Pollock, Clyfford Still, Robert Motherwell, Bradley Walker Tomlin; back row: Willem de Kooning, Adolph Gottlieb, Ad Reinhardt, Hedda Sterne
Nina Leen, “Gli Irascibili” (In prima fila: Theodoros Stamos, Jimmy Ernst, Barnett Newman, James Brooks, Mark Rothko; al centro: Richard Pousette-Dart, William Baziotes, Jackson Pollock, Clyfford Still, Robert Motherwell, Bradley Walker Tomlin; dietro: Willem de Kooning, Adolph Gottlieb, Ad Reinhardt, Hedda Sterne

Un titolista senza scrupoli si affiderebbe forse a «Da Jackson Pollock a Don Giussani» per comprimere nella tirannia della sintesi la complessità di un’esistenza. Certo è che il rapporto con Pollock e con gli altri pionieri dell’espressionismo astratto, segna in maniera indelebile Congdon: è allora, nell’incandescente New York uscita capitale del mondo dalla Seconda Guerra, che il pittore si sceglie, una volta per tutte, i riferimenti figurativi di una vita. Nella prima sala della mostra campeggia allora la celebre foto di Nina Leen che nel 1950 immortala, fianco a fianco, un folto gruppo di artisti: ci sono Pollock, De Kooning, Rothko, Barnett Newmann, Robert Motherwell e tanti altri. Si erano riuniti per protestare contro l’esclusione collettiva da una mostra del Metropolitan; e tanto sarebbe bastato per valere al gruppo il nomignolo di “Irascibili”. Congdon aveva già lasciato la città; altrimenti sarebbe stato lì, in mezzo agli altri, a fare corona attorno allo sguardo truce di Pollock. Montati sull’ingrandimento della foto, al piano terra di Casa Testori, stanno dei tablet su cui scorrono immagini degli artisti più significativi per Congdon. È una soluzione intelligente per fornire al visitatore le coordinate fondamentali con cui orientarsi nella storia che si racconterà.

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William Congdon, Campo Stoppie, 1981. Courtesy Associazione Testori

La storia, lo si è detto, è quella degli ultimi anni dell’artista, «autoesiliatosi in un monastero, scelto come punto privilegiato da cui esplorare la vita attraverso la terra e i frutti della Bassa, il mutare delle stagioni e l’avvicendarsi delle colture» (Dall’Ombra). Non si è voluto allestire un’antologica di capolavori, pescando, come fior da fiore, nella sterminata produzione dell’artista; è stato, per altro, già fatto, anche in tempi recenti. La scelta dei curatori è piuttosto puntare su un nucleo compatto, coerente per cronologia e geografia e temi, accettando l’inevitabile oscillazione dell’altalena della qualità e dell’ispirazione. Sono, del resto, gli anni del rapporto personale con Testori.

La prima sala lascia il segno. Sembra di poter misurare l’impatto della terra grassa della pianura sull’americano inquieto e giramondo. Le creste della pittura inseguono le ramificazioni delle rogge, il pettine rivolta la materia densa e incide sulla superficie le geometrie irregolari dell’aratro, la spatola schiaccia il colore come fa il vento con l’erba alta. Un sole pallido occupa il cielo bassissimo. I campi coltivati si trasfigurano in una materia pittorica che pare emanare il calore umido della terra. Il lessico pittorico dell’espressionismo astratto e le prassi dell’action painting si concretizzano in una naturalissima visione della pianura. E Testori non poteva non apprezzare.

William Congdon, Campo nero, 1986. Courtesy Associazione Testori
William Congdon, Campo nero, 1986. Courtesy Associazione Testori

Altrove la neve o la foschia prendono il sopravvento e i campi diventano visioni, campiture geometriche e astratte, accordi di toni cromatici: meno Pollock, più Barnett Newman. Basta però la traccia della pennellessa sulla superficie monocroma di Orzo 4 per trasformare in spighe i filamenti di colore. Otto sezioni (più i pastelli, meno significativi, allestiti sulle scale) finiscono così per scandire la ricerca di un artista che procede con una perseveranza da «contadino in pittura» (definizione di Congdon stesso).

Infine, a latere del percorso, una saletta affronta il tema dei rapporti tra l’artista e Testori. Ma non solo Congdon: un articolo pubblicato sul «Corriere» nel 1982, a recensire un’esposizione del Pompidou, rende conto dei rapporti tra il grande scrittore e Jackson Pollock; un tentativo, parrebbe, da parte di Testori di chiudere la partita con un artista tanto amato ma la cui opera assume ora, agli occhi del critico, il carattere di una «promessa non mantenuta». Ancora una volta, una scelta intelligente dei curatori per contestualizzare il rapporto tra Testori e William Congdon, per giustificare la presenza nella casa di Testori delle opere di Congdon. Una boccata di ossigeno, in epoca di mostre pacchetto, traslate da un continente all’altro, da una sede espositiva all’altra, senza che, in alcun modo, il contenitore interagisca con il contenuto.

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