Altro che La La land, ecco Los Angeles città di bugie e omicidi

In Cinema

“City of Lies” di Brad Furman, sottotitolato in Italia “l’ora della verità”, racconta in effetti due casi polizieschi americani non ancora risolti: quelli degli omicidi dei rapper Notorious BIG e Tupac Shakur, assai noti negli Usa degli anni Novanta. E celebri sono rimaste in più di vent’anni quelle indagini, tanto da suggerire a un reporter, dal cui lavoro il prende le mosse il film, di riesumarle. Johnny Depp e Forrest Whitaker danno forza a un racconto cupo, a tratti fin troppo complicato

City of Lies, città delle menzogne, altro che Los Angeles, città degli angeli. Questa la tesi di fondo del film di Brad Furman, che per la versione italiana ha aggiunto al titolo “l’ora della verità”. All’origine del progetto non un romanzo ma il libro di Randall Sullivan Labyrinth che ricostruisce gli omicidi di Notorious BIG e Tupac Shakur, avvenuti nel 1996 e l’anno successivo tra Las Vegas e Los Angeles. Omicidi di due famosissimi rapper tuttora irrisolti, ma con indagini che la polizia di Los Angeles tiene ancora aperte, e in questo modo impedisce di poter andare in tribunale. Il racconto del libro e del film cercano di spiegare il perché sulla base dell’inchiesta giornalistica di Jack Jackson (interpretato da Forest Whitaker) e soprattutto dall’indagine solitaria e boicottata del detective Russell Poole (Johnny Depp) che in effetti ha perso tutto, lavoro e affetti, per l’impossibilità di venire a capo della faccenda.

All’epoca il mondo del rap era davvero violento, le rivalità potevano anche sfociare in scontri armati e lasciare per strada dei cadaveri. Un po’ è quello che si è lasciato credere dei due omicidi, dei regolamenti di conti tra gangsta rap. Mentre si dovrebbe indagare sull’omicidio di Notorious (curioso che in Italia sia distribuito proprio da Notorious), un altro delitto, apparentemente marginale, viene affidato a Poole. Un bianco sbrigativo ha steso un nero arrogante dopo una lite automobilistica. Il problema deriva dal fatto che sparatore e sparato sono entrambi poliziotti sotto copertura. Non ci sarebbe stata storia: bianco spara a nero, quindi assolto. Solo che nell’aria ci sono ancora gli echi del pestaggio selvaggio dei poliziotti di Los Angeles nei confronti del taxista Rodney King, con processo che li assolve tutti e conseguente rivolta nera con cinquanta morti.

Quindi quando l’aspetto razziale entra nelle indagini l’indicazione è quella di essere cauti. Solo che Poole, indagando scopre che effettivamente il bianco ha sparato per legittima difesa e il poliziotto nero era coinvolto in un giro di protezione e servizio d’ordine dell’importantissima etichetta rap Death Row. Al punto da girare con un suv da 200mila dollari, troppi per uno stipendio da poliziotto. L’indicazione che viene dall’alto è quella di chiudere e lasciare perdere, ed è talmente forte che l’avvocato del poliziotto bianco patteggia senza dire nulla al suo cliente, impedendo così qualsiasi possibilità di dibattimento. E allora per Poole la faccenda diventa ossessione, vent’anni dopo vive solo e reietto con l’appartamento ridotto a reliquiario dell’indagine interrotta.

Johnny Depp con baffetto biondo contemporaneo e capelli rossi d’epoca appare malfermo e malmesso (ubriacature e liti sul set hanno portato a denunce), Forest Whitaker rispolvera con buon piglio il giornalismo d’inchiesta anche se non è facile combattere contro chi non ha bisogno di truccare le carte più di tanto perché è mazziere, giocatore e può cambiare le regole del gioco anche in corsa. Di certo il giro del rap milionario in dollari non era frequentato da mammolette, il trionfo dei neri e il loro riscatto musicale e culturale aveva dato il la a un’avidità e a un giro di denaro che prima poteva essere solo legato allo spaccio. Ma l’avidità non è buona consigliera, così come le rivalità tra gang, sia che si tratti di bande che di crew. E allora, per quanto quel tipo di realtà e di cultura suoni ancora relativamente estranea ai nostri occhi, risulta interessante rovistare nella spazzatura. Del resto si sa che molte indagini prendono le mosse proprio dall’analisi dei rifiuti. (a.c.)

UnA giustizia impossibile per colpevoli senza volto

Tupac Shakur morì il 13 settembre 1996. Sei mesi dopo anche Notorious B.I.G. venne ucciso. I due rapper erano rivali e rappresentavano due opposte visioni all’interno della scena musicale afroamericana dell’epoca, incarnando i due poli di una vera e propria faida hip hop fra East Coast (Tupac) e West Coast (Notorious). Vent’anni dopo i due omicidi sono ancora irrisolti e il detective Russell Poole del dipartimento di polizia di Los Angeles, ormai in pensione, non ha dimenticato. E il giorno in cui viene contattato dal reporter Jack Jackson le lancette dell’orologio sembrano tornare in un attimo indietro di anni. Il tentativo di ritrovare il filo di una matassa tanto ingarbugliata si rivelerà però impresa quasi impossibile. Il giornalista Jack Jackson (Whitaker) è un’invenzione narrativa, ma il detective Poole (con il volto sofferto e invecchiato di Johnny Depp) e tutti gli altri protagonisti della storia sono assolutamente veri. Così come è assolutamente reale l’intreccio bastardo di musica e corruzione, inganni e depistaggi che hanno trasformato la morte violenta di due giovanissimi musicisti degli anni Novanta in uno dei casi polizieschi più confusi e irrisolvibili della storia americana.

Per cercare di raccontarlo nel modo migliore il regista Brad Furman alterna due piani temporali: il malinconico presente contrassegnato dal rapporto conflittuale fra il detective e il giornalista (due perdenti che cercano invano un’inafferrabile verità) e i flashback ambientati negli anni 90, con le indagini in presa diretta di Poole, ugualmente contraddistinte da un totale smarrimento e dall’impossibilità di chiudere qualunque cerchio. In entrambi i piani si è di fronte a un universo malignamente ottuso, immerso in un’atmosfera ambigua, contrassegnata da un totale senso di sconfitta e fallimento. Titolo calzante per un film costruito come un labirinto, e come tale a tratti incomprensibile ma molto suggestivo nel suo continuo mescolare, sovrapporre bugie e verità, silenzi, segreti, parole. La teoria del grande complotto, di cui il racconto si nutre, mostra però più di una volta la corda slittando, girando a vuoto fra cumuli di parole, progressivi slittamenti di senso

Il risultato è un film interessante e non privo di fascino, ma totalmente incapace di restituire la vitalità della cultura afroamericana dell’epoca. Un prodotto di nicchia, nonostante la presenza di una star come Johnny Depp, qui in uno dei ruoli più ingrati della sua carriera, nei panni ingrigiti e stanchi di un uomo senza grandi qualità che trova la sua strada (e il suo destino, fino alla morte) nella decisione irrevocabile di rinchiudersi in un’ossessione inutile. L’indagine poliziesca diventa così uno snervato vagabondare sulle tracce di colpevoli senza volto, alla ricerca di una giustizia impossibile, nel tentativo di tenere insieme le tessere impazzite di un puzzle che appare sempre più privo di senso. Mentre le illusioni,
inesorabilmente, si trasformano in disillusioni. (m.v.)

City of Lies – L’ora della verità di Brad Furman, con Johnny Depp, Forest Whitaker, Toby Huss, Dayton Callie, Neil Brown Jr., Louis Herthum, Shea Whigham, Xander Berkeley, Rockmond Dunbar, Wynn Everett, Shamier Anderson 

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