Diario americano: a margine del caso Weinstein, tra molestie e politically correct

In diarioCult, Weekend

Troppo americana, troppo bigotta come dicono i miei amici italiani? Ecco perché difendo il politicamente corretto, ecco perché penso che, con il tempo, questi uomini che mettono in dubbio abusi di potere e morbose avances capiranno

Alle otto avevo già bevuto il secondo caffè, e l’ansia che mi accompagna ormai da giorni si stava risvegliando. La cosa migliore da fare in questi casi è infilarsi un paio di scarpe da ginnastica, accendere la musica nelle cuffie e andare a camminare. Stamattina, uscendo di casa, ho girato a sinistra, verso il fiume Charles, che divide Cambridge da Boston. Camminando con passo veloce e con l’incantevole musica di Citizen Cope, mi sono venute in mente tutte le discussioni fatte in questi giorni sui social network a proposito delle molestie sessuali che molte donne, e adesso anche molti uomini, stanno dichiarando ai giornali.

Non sempre si tratta di stupro vero e proprio, ma non bisogna arrivare a tanto per umiliare, spaventare e denigrare delle persone. Ci sono anche contatti fisici pesanti e inequivocabili, che partono quasi sempre da chi detiene un certo potere, diretti verso chi è più debole. Mi viene subito in mente lo scandalo venuto fuori sia negli Stati Uniti che in Italia sui preti pedofili. Il prete, come l’insegnante, è una figura che detiene un alto potere morale: dal prete ci si va a confessare, si va per imparare a vivere senza peccato e a camminare sulla retta via. Eppure allora, quando poco per volta gli ex ragazzini e ora adulti hanno trovato il coraggio di raccontare cosa era successo, nessuno ha mai messo in dubbio le loro storie. Sembra invece che quando succede a Hollywood – il caso Weinstein – o quando succede in circostanze più all’ordine del giorno (in ufficio, a casa, a una festa) nasca sempre un dubbio sulla verità della denuncia, come a dire che le vittime volessero in qualche modo mettere nei guai i loro predatori o se la fossero cercata o avessero inventato tutto per chissà poi quale motivo. Ne ho discusso a lungo con tanti uomini, italiani per lo più, che mettono in dubbio le confessioni fatte da donne e uomini che finalmente non sono riusciti più a nascondere il loro dramma. Mi hanno detto, tra le altre cose, che si capisce che sono in America da tanto tempo, che vedo tutto con le lenti del politically correct e del femminismo bigotto, che sono stata in qualche modo contaminata da questa società bigotta.

Alla fine del ponte sulla River Street, giro a destra e mi incammino sulla pista ciclabile, vuota a parte un gruppo di ragazzi neri vestiti con la giacca e la cravatta che si stanno avviando verso Harvard, e mi sale una specie di rabbia quasi ingiustificata per questo essere tacciata di politically correctness perché vivo in America. Mi vengono subito in mente i discorsi di Donald Trump, quando ancora si pensava che non avrebbe mai vinto. Andava davanti a folle di persone bianche, vagamente omofobe e razziste, a dire che adesso basta con queste scemenze delle parole che non si debbono dire: da adesso si dice pane al pane e vino al vino. E le folle che urlavano felici di non doversi più trattenere, di avere finalmente avuto l’autorizzazione di dire e fare quello che vogliono. E non è un caso che la settimana dopo la sua inaugurazione, nei bagni del liceo di mia figlia alcuni ragazzi avevano disegnato decine di svastiche: finalmente potevano farlo. E non è un caso che a Charlottesville, il paesino universitario della Virginia in cui neonazisti, membri del Ku Klux Klan e white supremacist abbiano avuto il coraggio, per la prima volta, di uscire dalle loro camerette e di intimidire, picchiare, addirittura ammazzare una giovane donna. Mi sembra che questi discorsi su come il PC sia una cosa ridicola siano un po’ quelli che arrivano a giustificare gli insulti a Laura Boldrini, o la mano morta sull’autobus, o lo strofinarsi sulle ragazzine. E intanto Berlusconi, il Trump italiano, sta per tornare.

Mentre osservo curiosa quattro oche che stanno per pucciarsi nel fiume, penso che però è vero che quelli del politically correct a tutti i costi a volte rasentano il ridicolo: un cugino di mio marito che vive a San Francisco, mi raccontava che si è arrivati a tali estremi che dire a un gruppo di ragazze: «Hey, guys, what do you want to do today?» è considerato un atto di microaggressione, perché GUYS è un termine solitamente riferito a un gruppo di uomini. La politically correctness, con le sue regole inflessibili e francamente esagerate, a volte diventa un facile bersaglio. Ma non possiamo permetterci di dimenticare l’importanza che ha avuto nel processo di accettazione di alcune realtà che quarant’anni fa erano considerate orribili e apertamente discriminate: la disabilità, l’omosessualità, l’essere di un colore di pelle diverso dal nostro. E adesso tocca al maschio e al suo istinto predatorio, che fino a poco fa sembrava accettabile, ma che adesso sta diventando inaccettabile, umiliante e aggressivo. Adesso tocca al maschio doversi giustificare, dover essere dalla parte del torto.

Quando arrivo a Harvard Square Citizen Cope mi sta cantando una canzone bellissima. A differenza della pista ciclabile, pullula di gente, soprattutto di giovani che corrono per andare a lezione. Penso che la mia città sia davvero un posto bellissimo, verde, ordinato, in cui l’atmosfera è sempre accogliente, l’energia contagiosa. Mi accorgo che molte delle persone che camminano, quando incrociano il mio sguardo mi sorridono. Ricordo che quando ero venuta a vivere qui, pensavo sempre che fosse un gesto talmente falso che mi faceva venire i nervi. Invece adesso lo trovo umano, confortevole, cordiale. Mi viene da ridere, perché adesso che l’ansia è andata via penso anche che chi in questi giorni mi ha tacciato di esagerato americanismo, forse un po’ ha ragione, forse in questi trent’anni americani sono diventata una yankee più di quanto io voglia ammettere.

Sono quasi arrivata a casa, e anche alla ferma conclusione che in fondo tutti questi uomini che mettono in dubbio abusi di potere e morbose avances hanno solo bisogno di tempo. Come quando l’uomo bianco aveva paura dell’uomo nero, come quando l’uomo eterosessuale aveva paura dell’uomo gay, come quando l’uomo neuro dotato aveva paura dell’uomo disabile, come quando l’uomo americano aveva paura dell’immigrato italiano, prima o poi anche i miei amici maschi un giorno capiranno. E ritorneremo finalmente a parlare di scemenze.

Entro in casa, metto i piedi sul divano e soddisfatta dei miei quattro chilometri a piedi, mi accendo la mia prima sigaretta.

Immagine di copertina di Sharon Brogan