Freddie Mercury vive! E canta insieme a noi

In Musica

Dalla Londra degli anni 70 fino al leggendario Live Aid del 1985. “Bohemian Rhapsody”, il biopic che uscirà nelle sale cinematografiche il 29 novembre, racconta il mitico cantante/showman, i Queen e le loro spettacolari esibizioni live. Già solo la ricostruzione del concerto di Wembley vale il prezzo del biglietto

Bohemian Rhapsody (nei cinema dal 29 novembre) è un viaggio perfetto per chi ama i Queen e Freddie Mercury e la loro musica. Didascalico al punto giusto, il biopic diretto da Bryan Singer coglie in pieno il cuore musicale della band, fatto della voce istrionica e meravigliosa di Freddie e delle eccellenti doti strumentali dei tre musicisti, capaci di viaggiare sempre tra rock e mass market per creare e suonare canzoni che hanno effettivamente fatto la storia e restano nell’inconscio collettivo.

Il film è lungo e coinvolgente e racconta le vicende della band dagli inizi nella Londra dei primi anno 70 fino alla leggendaria esibizione del Live Aid del 1985, quando si confermarono come una delle live band migliori del pianeta. E la musica è la vera goduria della pellicola, perché (giustamente) i produttori esecutivi del film Brian May e Roger Taylor – chitarra e batteria della band – hanno scelto di far sentire sempre e solo materiale originale. E quindi la voce che si sente è sempre quella di Mercury, inimitabile e per questo ancora oggi stupefacente per intensità e potenza.

La ricostruzione delle esibizioni live del gruppo è impressionante, e si capisce che lo sforzo maggiore è stato proprio quello di mettere un segnale preciso sul territorio: i Queen erano una band che dal vivo faceva la differenza, e questo con il film viene affermato definitivamente. Da sola, la ricostruzione dei venti minuti del luglio 1985 a Wembley per il Live Aid vale il prezzo del biglietto: personalmente mi sono venuti i lucciconi nel sentirmi sul palco con il gruppo in quei pochi, infuocatissimi pezzi pieni di energia ed empatia con il pubblico.

La storia che si racconta è quella del gruppo, si diceva. In certi passaggi risulta un po’ edulcorata e a tratti anche forzata con alcune licenze cronologiche inspiegabili, visto che a seguire il film c’erano direttamente due membri della band. Per esempio, nel racconto si sente Crazy little thing called love uscita nel 1980 prima di We will rock you, datata 1977…. non si spiega il motivo, ma sono dettagli che si possono perdonare nell’opera nel suo complesso.

Invece mancano alcuni passaggi “artistici” che spieghino meglio l’evoluzione della band, che da una prima fase fatta di citazioni operistiche e sovraincisioni maniacali passa ad una seconda fase piena di elettronica e soluzioni pop quasi contraddittorie rispetto a certi pezzi per cui i Queen erano già diventati famosi. Nel film queste questioni vengono spiegate con i problemi caratteriali di Freddie, che cambiava idea spesso e volentieri. Ma chi ha vissuto quegli anni sa che sotto ci sono ragionamenti artistici e di mercato ben più complessi.

In sintesi: i Queen a metà anni 70 sono il gruppo simbolo di quello che il punk rifiuta, non perché non piacciono, ma perché orgogliosamente compongono e suonano canzoni non riproducibili nelle cantine e nei club. Partiture complesse, decine di sovraincisioni, suoni classici non rieseguibili dai kids che amano il rock e che hanno dentro la voglia di urlare quello che pensano e provano. Il punk fa diventare i Queen ( e non solo loro, ovviamente) improvvisamente vecchi e fuori moda nella Londra del 1977.

La band reagisce con la già citata We will rock you, e poi due anni dopo con un album The game, che usa abbondantemente l’elettronica, ma anche suoni acustici rock n roll (Crazy little thing called love) e ritmi sguaiatamente disco come in Another one bites the dust. Il tutto per tornare di nuovo al centro del mercato discografico mondiale, cosa che gli riesce perfettamente. Nel film tutto questo non è raccontato, e le scelte della band sembrano solo figlie dell’istinto di May e Mercury. Insomma, nel film mancano i contesti musicale e sociale in cui si svolge la vicenda: sembra che il mondo intorno ai quattro non cambi mai se non per alcuni aspetti estetici (i capelli, le pellicce…), ma ovviamente non era così e non poteva esserlo.

Ma alla fine il biopic regge, grazie anche alla performance eccellente dei suoi attori. Reinterpretare Mercury era una scommessa durissima, e Rami Malek la vince nonostante sia meno bello e meno “fisico” del grande cantante scomparso. Malek ci mette l’anima oltre che la grande disciplina che un attore deve avere per essere uguale a un mito, e alla fine ci riesce bene, come anche gli altri attori che interpretano i Queen. Personalmente ho trovato incredibile la somiglianza fra Brian May e Gwilym Lee sia sul palco che nelle scene di vita quotidiana.

Malek si cala bene nella parte anche quando deve interpretare i “diavoli” che attraversano la personalità di Mercury: il rapporto complicato con la famiglia di origine, la storia difficile con la fidanzata, le pulsioni omosessuali che diventano dominanti, la fragilità isterica data dalla fama e infine i primi segnali dell’arrivo dell’AIDS che lo porterà alla fine nel 1991. Mercury era eccessivo sempre, era “troppo” in ogni frangente – anche musicale – e Malek riesce a rendere la complessa personalità del cantante rendendogli omaggio con cura e grande attenzione ai dettagli.

 

Film da vedere per chi ama i Queen e interessante per chi non li conosce ed è curioso di sapere di più di questa storia musicale, che ruota intorno a una “living legend” come Freddie Mercury e a una raccolta di canzoni ancora oggi meravigliose nel loro essere potenti e perfette nella loro capacità di parlare all’anima e al cuore di intere generazioni.

Poi, ci sarebbe da ragionare sulla effettiva grandezza dei Queen nella storia del rock, ma questo è un altro discorso…

 

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