Hollywood tra “Ben Hur” e “I magnifici 7”: per pietà, un anno di tregua dai remake

In Cinema

Peplum e western ritornano nelle mani del kazako Timur Bekmambetov e di Antoine Fuqua, impegnati nell’assurdo tentativo di riportarli in vita così com’erano un tempo, grazie a effetti speciali neanche troppo ricchi. E se la saga della frontiera ha trovato attualizzazioni intelligenti e che funzionano (Tarantino su tutti), i miti antichi naufragano travolgendo attori di grido come Denzel Washington (o almeno promettenti: Jack Houston), tra jeans che spuntano sotto le tuniche e imbarazzanti jingle

 

Flashback n.1: in quinta elementare, la mia ultra-devota maestra di italiano decide che è arrivato il momento di proiettare alla mia classe Ben-Hur di William Wyler con Charlton Heston. Con inappuntabile tempismo e vago fine di contropropaganda, mio padre una settimana prima mi aveva introdotto al delirante mondo della comicità britannica facendomi vedere Brian di Nazareth, parodia della vita di Gesù firmata dai Monthy Python. Risultato: vengo sbattuto fuori dall’aula video insieme ad altri due o tre miei compagni, dopo un’ora scarsa di proiezione e una buona dose di gag e battutacce al limite della blasfemia.

Flashback n.2, più recente: a luglio di quest’anno mi viene proposta l’anteprima (e conseguente recensione) del nuovo capitolo della saga di Jason Bourne. Declino l’offerta a malincuore perché, pur essendo un grande fan della serie, ho già prenotato le ferie, e iniziano proprio quel giorno. Prometto però, in uno slancio di buoni propositi, di non rifiutare più anteprime per tutto il periodo post-vacanze estive.

Altrimenti sembra che uno certi film come il remake di Ben-Hur del kazako Timur Bekmambetov (già autore dei più che dimenticabili I Guardiani della Notte, Wanted e Abraham Lincoln: Vampire Hunter) li va a vedere apposta, e allora se l’è cercata. Cioè sembra che lo spettatore, o il critico, o chi è un po’ l’uno e un po’ l’altro, dalle versioni rimesse a nuovo di Robocop, Total Recall e (ahimè) Ghostbusters non abbia imparato proprio nulla.

E invece no. L’abbiamo imparata eccome, anzi, lo sapevamo fin dall’inizio. Piuttosto, quello che non ci si spiega è l’irrefrenabile tendenza odierna, tutta hollywoodiana, a prendere film-simbolo – nonchè block-buster – è ovvio, del passato, capolavori, belli o mediocri che siano, e rifarli peggio. Perché questo Ben-Hur, peraltro di scarso successo in patria, come anche i sopracitati remake suoi colleghi rispetto all’originale fa l’effetto di una di quelle cover band da sagra di paese, dedite per hobby alla distruzione sistematica di mostri sacri del rock classico. Di più, sembra quasi si nasconda un piacere perverso nell’attirare in trappola il pubblico col richiamo del titolo di culto, per poi deluderne le aspettative, sfornando prodotti, sì più “moderni”, ma che qualitativamente (per ironia, sceneggiatura, suspense, dialoghi e chi più ne ha più ne metta) avrebbero ancora un gran bisogno di essere fatti da qualcuno che prima si sedesse e prendesse appunti. Almeno dell’originale.

Non è solo una questione di nostalgia (anche se, si sa, già con quella non si deve scherzare) del bel cinema che fu. Il Ben-Hur del 1959, tratto dal romanzo di Lew Wallace e a sua volta rifacimento di due titoli dell’epoca del muto, passò alla storia come il film più lungo e costoso del dopoguerra, e poté vantare il record solitario di premi Oscar (ben 11) fino all’uscita di Titanic, 38 anni più tardi. Ancora oggi è considerato, e a ragione, il re del filone peplum, con le sue imponenti scenografie made in Italy (fu girato a Cinecittà) e più di una scena rimasta nella storia della cinematografia di genere. Genere che, a rifarlo ora rappresenta una sfida non da poco, perché proprio il peplum, assieme al western (a proposito, più di un cinefilo già storce il naso di fronte ai Magnifici 7 di Antoine Fuqua appena uscito) trovava il suo fascino in un’iconografia, in un’idea maestosa di cinema “fatto a mano”, che semplicemente non c’è più. E se il western, abbandonato il mito della frontiera, pare aver trovato nuova linfa in un’accezione più crepuscolare o tarantiniana, il peplum nell’epoca della computergrafica ha davvero ben poco da offrire, se non la cruda muscolarità di un gladiatorio Russel Crowe, o i deliri macho-kitsch del 300 dal fumetto di Frank Miller.

Bekmambetov compie invece l’impresa di scegliere l’unica via non percorribile, quasi ossimorica, raccontando una vicenda monumentale in un prodotto palesemente low budget, per quanto infiocchettato in un inutile 3D: il risultato è la sgradevole sensazione di uno sceneggiato televisivo della peggior specie, ricco di cadute di stile ed errori troppo brutti per essere veri. Come Ben-Hur e consorte che cavalcano in jeans, stivali e leggings bianchi sotto la tunica. Come le legioni romane che marciano intonando cori alla Full Metal Jacket. Come la corsa delle quadrighe con gli ordini di scuderia (e senza le lame rotanti!). Come la dissolvenza finale con sigla pop alla Dawson’s Creek.

E come avere a disposizione Morgan Freeman (unico nome di richiamo nel cast, insieme al protagonista Jack Houston, che viene da Boardwalk Empire) e declassarlo da Dio con la D maiuscola a imbarazzante e imbarazzato fantasma di Bob Marley. Liberissimo, per carità. Basta, però, che nessuno si stupisca quando, davanti alla pioggia che cade sugli empi a mondarne i peccati, il santo spettatore martire chiederà a gran voce un miracolo inedito: non più illusorie promesse di resurrezione cinematografica, ma piuttosto qualche idea nuova. O almeno un anno di tregua dal remake al ribasso.

 

Ben-Hur di Timur Bekmambetov, con Jack Houston, Toby Kebbell, Morgan Freeman, Nazanin Boniadi, Ayelet Zurer

 

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