Furla Series #01: Alexandra Bachzetsis e la performance al tempo di Google

In Arte

Museo del Novecento e Fondazione Furla presentano Furla Series #01 – Time after Time, Space after Space, un programma dedicato alla performance che, attraverso cinque focus su altrettanti artisti di generazioni e provenienze differenti, presenta una pluralità di approcci a questa forma espressiva. Per il secondo appuntamento, l’artista svizzera di origine greca Alexandra Bachzetsis ha presentato per la prima volta in Italia la performance Private: Wear a mask when you talk to me. Qualche perplessità.

Vito Acconci, icona della performance poi divenuto archistar, ebbe a dire che “fare performance, oggi, non ha più senso. Non serve a nulla e non capisco le ragioni di chi le fa. A me interessa essere al centro di qualcosa, e con l’arte non è più possibile”. Evidentemente, vedere gente che gli faceva cose davanti senza un senso, uniti al grido di “facciamolo strano”, non aveva più niente a che vedere con il concetto di performance quale si era sviluppato con lui, con le esperienze di Fluxus, le intersezioni con il Teatro Povero di Grotowski, gli happening del Living Theater e via dicendo.

Che non abbia più senso fare performance in assoluto può però essere un’affermazione discutibile. La performance, così come ogni altra forma di ricerca d’avanguardia del passato recente e remoto, è ormai un medium riconosciuto e consolidato a disposizione di chi fa arte nel presente, esattamente come un quadro o una scultura, e non possiamo più permetterci di fare ostruzionismo retorico come è stato fatto per quasi un secolo contro la fotografia.

Ma che non abbiano senso le performance così come vengono per lo più fatte oggi è un concetto che possiamo affrontare in modo più empirico. Un amico, tempo fa, mi faceva notare come si fosse stancato di partecipare, per dovere coniugale, a performance dove “ti pisciano sui piedi, cuociono sassi in una pentola o ti fanno il ritratto con un pennello nel culo!”. Come dargli torto? Per non parlare poi, quando non ci sia un contenuto provocativo/osceno, della insopportabile noia che farebbe sbadigliare a bocca piena i più fanatici cultori del minimalismo teatrale o del cinema lappone con sottotitoli.

©Masiar Pasquali

Sembra però che tutto sia possibile e permesso, come se a sostenere la fruizione dell’arte performativa fossero ormai quasi esclusivamente i paradigmi del readymade, che ne legittimano l’esistenza attraverso il contesto fisico e sociale che la accoglie, più che il riconoscimento di un valore intrinseco dell’opera, al pari del celeberrimo pisciatoio che oggi, a quanto pare, ha delle perdite nello scarico. E a niente sembra servire l’ormai popolare alternativa al Pilates che è il “Metodo Abramovic”, tanto amato da Lady Gaga, nel ricordare che, se proprio devi farlo, almeno fallo bene.

Questa lunga premessa per parlare di “Time after Time, Space after Space“, programma di appuntamenti dedicati alla performance organizzato da Fondazione Furla e Museo del Novecento, in particolare sul secondo appuntamento della rassegna, la performance “Private: Wear a mask when you talk to me” di Alexandra Bachzetsis.

©Masiar Pasquali

Quarantatreenne artista e coreografa svizzera di origini greche, Bachzetsis per due serate ha inchiodato gli spettatori alla sedia, metaforicamente parlando (non si sa mai…), per ben 53 minuti più la lunga ed estenuante attesa all’ingresso del museo. In nome di un approccio trasversale ed eclettico all’arte, Bachzetsis ha proposto una lunga e altalenante serie di balli, canti e trasformismi che, stando al testo introduttivo, rimandano ai temi dell’identità di genere e del dominio maschile, conditi con rievocazioni etniche alla Zorba e citazioni da Michael Jackson con l’aggiunta di burlesque e pornografia q.b.

Ma la performance di Bachzetsis, muovendosi in modo approssimativo tra danza e arti visive senza riuscire a parlare a nessuno dei due mondi, è risultata retorica e poco incisiva, anche a causa dell’esecuzione, sia fisica che vocale, inadeguata rispetto al livello internazionale in cui l’artista, a cominciare dalla partecipazione all’ultima edizione di Documenta a Kassel e Atene, si muove con molta determinazione. Mi dicono che la seconda serata è andata meglio, ma non credo che questo basti per assolvere un’opera che solo la diplomazia estrema, prodotta dallo spostamento continuo della soglia di tolleranza in questi ultimi vent’anni, può far giudicare anche solo come ben riuscita.

©Masiar Pasquali

Entrando poi nel merito dei contenuti, questi sono sempre e solo citati o allusi senza convinzione all’interno di un calderone pop simile a una ricerca su Google, di cui la performance ricalca la struttura ramificata in superficie, senza mai nemmeno tentare un’incursione verso quell’essere al centro di cui parlava Vito Acconci. Il presunto soggetto del lavoro di Bachzetsis, quei gesti stereotipati e ripetuti che dovrebbero continuamente ridefinire la nostra identità, è in realtà presentato come un vacuo copia/incolla di azioni decontestualizzate, senza relazione tra loro né con l’altro da sé che guarda. Nel suo non prendere posizione, nonostante le pretese e un certo compiacimento, Bachzetsis non dimostra né il coraggio della denuncia né la consapevolezza linguistica del racconto rizomatico, girando attorno ai tòpoi citati senza mai arrivare a un adeguato sviluppo narrativo né ad alcun tipo di ridefinizione identitaria.

Come già detto, il problema non è specifico di questa artista ma è generalizzato. Come diceva Ulay, “l’estetica senza etica è cosmetica”, e questo è evidentemente un male del nostro tempo. La performance è tornata di gran moda ma è palesemente in crisi, sia di forma che soprattutto di contenuti, e non mi sembra che le eccezioni si sprechino. Aspettiamo dunque i giovani, magari quelli nati in questo secolo, per vedere con quali gesti e con quali azioni sapranno raccontare il loro mondo. E aspettiamo i prossimi appuntamenti di Furla Series al Museo del Novecento, sperando mi facciano cambiare idea.

 

Museo del Novecento e Fondazione Furla, FURLA SERIES #01 – Time after Time, Space after Space, un ciclo di performance con Alexandra Bachzetsis, Simone Forti, Adelita Husni-Bey, Christian Marclay e Paulina Olowska, a cura di Bruna Roccasalva e Vincenzo de Bellis, da settembre 2017 a maggio 2018, Sala Fontana, Museo del Novecento, Milano.

Info: c.museo900@comune.milano.it – info@fondazionefurla.org

Immagine di copertina © Masiar Pasquali

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