Lo strano, svogliato fascino di Atlanta

In serieTV, Weekend

Si ride poco e non ci si commuove. Atlanta, premiatissima serie di cui vedremo una seconda stagione, non ha neanche l’orgoglio black che potrebbe muovere, nella transizione dell’America obamiana a quella di Trump. Eppure prende perché parla, onestamente, di noi e del nostro smarrimento

Atlanta è una serie sul senso di smarrimento di questi tempi. Il suo creatore, produttore, interprete e regista, Donald Glover è famoso in America per essere uno stand up comedian e un cantante rap e r’n’b con lo pseudonimo Childish Gambino. Un oggetto, la serie, strano, indefinibile, surreale, che non può essere davvero identificato. Sarebbe facile definirla ironica, brillante, amara, ma durante la visione dei dieci episodi non è esattamente chiaro nei confronti di che cosa lo sia.

La storia? Earn (Glover) è un trentenne afroamericano, colto, ex studente di Princeton, senza un lavoro fisso e senza soldi, che vive a casa della (quasi) ex compagna nonché madre di sua figlia. Vive nell’apatia, ma continua a coltivare la passione per l’hip hop. Vuole diventare manager del cugino rapper Paper Boi, diventato improvvisamente famoso per un video musicale virale su You Tube. Questo è lo spunto di partenza di una trama che non si evolve mai veramente: Earn e Paper Boi ondeggiano e si trascinano, trovandosi di fronte a situazioni di una quotidianità soltanto accennata, poco comprensibile, specchio di una società sempre più assurda e indecifrabile.

Per rendere meglio l’idea: il quinto episodio ruota attorno alla popstar Justin Bieber, che senza nessun motivo in Atlanta viene fatta impersonare da un attore nero. Nel sesto, i due personaggi principali scompaiono: il ruolo centrale è quello della fidanzata di Earl alle prese con la preoccupazione per un test antidroga sul posto di lavoro. Anche lo stereotipo dell’universo gangster afroamericano è completamente sfumato: non mancano sparatorie, pusher, parchetti e locali notturni, ma Glover li sfiora quasi in maniera annoiata, con un approccio disinteressato sia all’indagine sociale che al ritratto parodistico.

 

Si ride poco, non ci si commuove, non si empatizza con i protagonisti. Eppure, l’apparente svogliatezza di Atlanta è difficile da abbandonare: il suo mood rispecchia l’onestà e l’autenticità degli intenti del suo mentore, probabilmente più interessato a comunicare il sentimento atarassico che permea un’intera generazione piuttosto che a realizzare una serie avvincente e incalzante.

Si può provare a pensare ad Atlanta come ad un oggetto politico e contemporaneo, dal momento che il punto di vista è afroamericano e coincide con il momento di transizione negli Stati Uniti d’America tra la presidenza democratica di Barack Obama e quella repubblicana di Donald Trump. Ma Glover non sembra neppure voler ribadire un particolare orgoglio di appartenenza a una comunità: tutti i passaggi che si rivolgono a tensioni sociali si sviluppano in maniera demenziale e straniante. Una posizione agli antipodi con la passione che caratterizza, per esempio, i tre lavori candidati all’Oscar per miglior film di fattura black, ovverosia Moonlight, Il diritto di contare e Barriere: in Atlanta non c’è nessuna traccia di politically correct, di frustrazione, di indignazione, di desiderio di riscatto.

Laddove Glover sembra riporre maggiore fiducia ed entusiasmo è la sfera musicale, vissuta come àncora di salvataggio da parte di Earn e utilizzata come fondamentale accompagnamento sonoro che rafforza tutte le situazioni descritte: si va da Sam Cooke agli Outkast, da Little Beaver a Kamasi Washington.

Ad ogni modo, Atlanta è stata accolta trionfalmente. Agli ultimi Golden Globe è stata premiata come migliore serie comedy e per il migliore attore protagonista e vedremo nel 2018 la seconda stagione. E per Glover è soltanto l’inizio: lo vedremo infatti in Spider-Man: Homecoming e nel ruolo di Lando Calrissian in Han Solo: A Star Wars Story, spin-off di una saga dedicata a una galassia lontana lontana…

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