Inventare un nuovo linguaggio: Vincenzo Agnetti

In Arte

Ha appena inaugurato a Palazzo Reale una grande retrospettiva dedicata a Vincenzo Agnetti (1926-1981): dalla collaborazione con il gruppo di Azimuth (Piero Manzoni, Enrico Castellani) alle radicali sperimentazioni sulla natura del linguaggio.

Il XX secolo si apre con alcune teorie che mettono radicalmente in discussione l’assetto cognitivo tradizionale. Freud e una nuova considerazione del pensiero individuale, Einstein e una nuova dimensione del tempo, Heisenberg e una nuova percezione della realtà che ci circonda, rimescolano radicalmente il ruolo dell’uomo nella società e nella storia.

A farsi interprete di questa rivoluzione è per prima l’arte figurativa, rimettendosi radicalmente in gioco e superando proprio il concetto di figura: Picasso che la scompone con il cubismo, Kandinskij e Klee che ripensano le possibilità di guardare al mondo.

Ma la rivoluzione definitiva nell’ambito del linguaggio avviene dopo la seconda guerra mondiale. Il trionfo del capitalismo americano, del consumismo, l’affermarsi dei nuovi codici della televisione, del cinema, della pubblicità provocano un vero cortocircuito tra l’uomo e il suo modo di esprimersi più naturale: il verbo.

Quando mi vidi non c’ero, 1971

«L’arte interviene quando l’uomo non può o non può più guardare “in volto” le cose. L’artista nomina ciò che non ha nome in un moto di enorme fatica, una sfida» (Werner Hofmann).

E l’artista si trova a dovere riqualificare un linguaggio che via via perde sempre più di significato, di capacità di trasmissione reale.

In Europa questo disagio viene avvertito in letteratura con l’affermarsi del nouveau roman in Francia e del Gruppo 63 in Italia. Movimenti che raccolgono probabilmente il meglio delle individualità del tempo ma che, a cinquant’anni di distanza, possiamo dire abbiano prodotto risultati modesti.

Il problema va analizzato infatti più in profondità e con un atteggiamento radicalmente nuovo e più coraggioso. Bisogna ripartire dalla negazione stessa del sé.

Lo fanno in Italia alcuni artisti. L’attore Carmelo Bene: «Non esisto dunque sono». Emilio Isgrò: «Dichiaro di non essere Emilio Isgrò». Vincenzo Agnetti: «Quando mi vidi non c’ero».

Ed è quest’ultima, l’idea più radicale e quindi più vera. Quando ci vediamo, nei filmini, nelle riprese più diverse, ormai non ci siamo più.

Progetto di un Amleto politico, 1973

Agnetti studia da artista: l’accademia di Brera e i corsi di arte drammatica al Piccolo Teatro. Collabora con Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Scrive per la rivista Azimuth. Poi una pausa. Dal 1962 al 1967 va a lavorare in Argentina.

Nel 1967 ricomincia la sua attività artistica a Milano. Un anno particolare: Guy Debord pubblica La società dello spettacolo, esce l’edizione italiana di Gli strumenti del comunicare di Marshall Mcluhan.

Nel 1968 Agnetti presenta la sua Macchina drogata. Un progetto di allucinatoria intelligenza. In una calcolatrice Divisumma della Olivetti sostituisce ai numeri le lettere. Ne scaturiscono delle opere (ingrandite e stampate in serigrafia su fondi di diverso colore) di inquietante bellezza.

Come di inquietante bellezza è nel 1971 Il libro dimenticato a memoria, un volume in cui il testo viene fisicamente rimosso, tagliato: non più senza senso come nel nouveau roman, non cancellato come in Isgrò, letteralmente eliminato. Quest’opera si accompagna alla dichiarazione forse più lucida dell’artista: «La cultura è l’apprendimento del dimenticare». Affermazione profetica dell’attuale epoca dell’iperinfomazione. Il suo gesto più radicale.

Ritratto di filosofo, 1971

Agnetti è attore, poeta, critico, ma soprattutto artista. «Non esiste una cosa bella che non sia calcolata». E quindi le sue affermazioni, la sua poetica si trasmettono attraverso due filoni di impeccabile rigore grafico: gli assiomi, frasi composte su bachelite nera e i ritratti, scritte incise su feltro. Il ritratto di filosofo per esempio: Lasciato in balia/ di se stesso/alla ricerca/del punto/che circonda/ la terra. Nel 1971 è più coerente di un dipinto di Giorgione. Sono, le sue, opere che esprimono una semantica tutta nuova perché per Agnetti il linguaggio è parola più immagine più tempo.

E il tempo è il vero protagonista di alcune sue opere successive: XIV-XX secolo in cui pone le scritte “Pensa, Prendi, Pesa, Usa” su affreschi che riproducono i quattro evangelisti; 1870-1974 «intervento di scrittura in acrilico su tavole di legno dipinte a olio».

E soprattutto l’Età media di A., un ritratto composto dal montaggio di quattro parti di fotografie di una donna scattate in quattro diversi tempi: il risultato è straniante. Il ritratto di una persona con i suoi caratteri autentici ma che esprimono diverse fasi della sua vita. Un ritratto vero ma impossibile. L’immagine viene poi riutilizzata per un’altra opera, Note sul ritratto di tutti: la stessa figura riprodotta su quattro fondi di colore diverso con la scritta “La tua immagine muta a causa delle tue testimonianze”. E l’immagine muta effettivamente, come nell’esperimento del regista sovietico Kulesov che pone la stessa ripresa di un attore in contesti diversi (montato con immagini di cibo, di una donna seminuda, di un atto di violenza), con il risultato di esprimere fame, desiderio, paura.

L’età media di A., 1972

Risultato analogo Agnetti ottiene nella sua opera Autotelefonata: Yes in cui a modificare la percezione della stessa immagine bastano scritte diverse.

Ma il tempo è protagonista anche dell’Amleto politico. In una stanza tappezzata di bandiere e testi, da un palco di ferro si ascolta la voce dell’artista. Il testo consiste di numeri da uno a dieci, declinati con un timbro attoriale che produce un effetto ipnotico. È un po’ la soluzione scenica di un monocromo di Manzoni. E d’altra parte dal 1962 anche i colori – grazie alla mappatura Pantone – sono stati ridotti a numeri.

La mostra si conclude con le sue uniche sculture e le “fotograffie”, disegni incisi e colorati su carta fotografica esposta alla luce e quindi annerita.

Architettura tradotta per tutti i popoli è forse una summa del pensare e agire di Agnetti. L’opera è costituita da tre fotografie: la cupola di Santa Maria delle Grazie, nelle parole di Agnetti «un piccolo spazio della terra…». Poi la stella polare: «Una stella al centro come una curva a indicare con l’ausilio di altre stelle, una prospettiva». Infine l’immagine di una galassia: «Il Bramante e la stella polare… non hanno più alcuna importanza… La traduzione si concreta con l’immagine di una spirale aperta. Una Galassia che si chiama: N G C 2403».

Progetto di un Amleto politico, 1973

Immagini, segni, numeri, spazi. È un’opera alla ricerca di una nuova lingua, di una diversa percezione del reale. Di un diverso livello di comunicazione.

La visita della mostra, bellissima, richiede un alto livello di concentrazione. Lo merita.

Una considerazione. Partiamo da un assioma di Agnetti: «La cultura è quanto rimane una volta che hai dimenticato tutto ciò che sai». Alla prossima mostra che vedremo, magari di arte classica, partiremo da questo punto di vista e la visiteremo con la stessa concentrazione che questa mostra – in cui, letteralmente, le opere ci parlano – ci ha richiesto. Probabilmente vedremo un’arte completamente nuova, diversa. E allora la mostra a Palazzo Reale, a 36 anni dalla morte dell’artista, potrebbe essere il suo capolavoro; il suo obiettivo raggiunto. Cambiare lo stato d’animo dell’osservatore.

 

Agnetti. A cent’anni da adesso, a cura di Marco Meneguzzo e dell’Archivio Vincenzo Agnetti, Milano, Palazzo Reale, fino al 24 settembre.

Immagine di copertina: Libro dimenticato a memoria.

 

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