Ungheria 1945: il passato ritorna e non fa sconti alle anime nere

In Cinema

Salutato come una nuova grande prova del cinema magiaro, a due anni dall’Oscar al “Il figlio di Saul” di László Nemes, anche quello legato ai temi dell’Olocausto, esce in Italia il nuovo film del 47enne Ferenc Török, reduce dai successi ai festival di Berlino e Gerusalemme. Nell’immediato dopoguerra si stanno per celebrare in un paesino le nozze del figlio di un potente del luogo con una bella contadina. Ma l’arrivo alla stazione di due misteriosi personaggi vestiti di nero suscita negli abitanti il terrore che siano in qualche modo mandati da Pollock, ricco ebreo del paese denunciato anni prima alle autorità e finito in un lager dopo esser stato spogliato di tutti i suoi averi, finiti ai malvagi concittadini

Un pomeriggio di mezza estate del 1945 (è anche il titolo del film) in un piccolo paese dell’Ungheria: la guerra è già finita e la dittatura non è ancora iniziata, siamo in un periodo di transizione tra il fascismo e l’avvento delle nazionalizzazioni e del comunismo, una parentesi in cui sarebbe stata possibile una parentesi democratica. Quasi a sottolineare il carattere di straordinarietà di quel momento storico, spesse volte taciuto da una letteratura e da una cinematografia che preferiscono i sensazionalismi del prima e del dopo, il 47enne Ferenc Török ambienta il suo piccolo mondo antico in ventiquattro ore, nobilitando la quotidianità rurale di uno sperduto borgo ungherese con la solennità dell’unità spazio-temporale della tragedia greca.

Quello che avrebbe dovuto essere per la cittadella il giorno del del matrimonio del figlio del vicario, Árpád (Bence Tasnàdi) con una giovane contadina, Kisrózsi (Dòra Sztarenki) si trasforma in una maratona di suspance. Perché da un treno, alla stazione scendono due sconosciuti ebrei ortodossi con grandi valige recanti la scritta “profumo”. István Szentes (Péter Rudolf), l’influente vicario, teme assieme a molti concittadini che possa trattarsi di eredi degli ebrei deportati dai nazisti, o di altre presenze potenzialmente minacciose per la stabilità della vita e del commercio locali. La lenta e funerea marcia dei due si oppone al moto frenetico del vicario, che dialoga coi compaesani, espressione di quell’unico personaggio che riunisce la coralità del paese. Ma il principale timore è che si tratti di agenti di un uomo di nome Pollack, una figura benestante del luogo denunciato dai suoi compaesani e imprigionato in un campo di concentramento. Molti abitanti del villaggio hanno approfittato della sua sciagura e sono poi diventati, illegalmente, proprietari dei suoi averi, delle sue molte case e di altri suoi beni.

Il negozio del segretario comunale (Tamàs Szabò Kimmel) è perfettamente rifornito, il brandy e il cibo per il matrimonio sono abbondanti, ma si avverte che qualcosa di cruciale manca all’appello. E per novantun minuti la regia tiene gli spettatori sulla corda in attesa di quello che potrebbe accadere, realizzando un film che mostra punti di forza ovunque, dagli sbuffi della locomotiva al nero delle giacche dei due sconosciuti, rese ancor più funeree da una fotografia dicotomica.

Dopo dieci anni di gestazione Török ha dato alla luce 1945 (e non dev’essere stato facile nell’Ungheria del premier Orbàn) film ispirato da un racconto dello scrittore ungherese Gábor T. Szántó, Homecoming, allestendo un vis-a-vis con le gravi colpe di cui i protagonisti si sono resi responsabili durante la seconda guerra mondiale, in qualche modo sulla scia del polacco Paweł Pawlikowski, autore di Ida (Oscar al miglior film straniero nel 2015). Se1945 condivide con Ida la maestosità di un bianco e nero immacolato (merito anche della fotografia di Elemér Ragályi), a un altro film ungherese recente di grande pregio, che ha toccato a sua volta il tema Olocausto, Il Figlio di Saul di László Nemes (Oscar al miglior film straniero 2016), lo avvicina invece l’intelligente suspense con cui asciuga qualsiasi dialogo all’essenziale.

Un senso di egoismo e animalesca sopravvivenza serpeggia fra le generazioni. E se l’ubriacone del paese Andras (Jòsef Szarvas) sembra l’unico a conservare quel minimo di spiritualità che lo conduce a confessare – e poi a trarne conseguenze estreme – la sua complicità nel piano che ha spedito Pollack incontro ad una sorte ingiusta, confessione accolta dal sacerdote con un perdono sommario e svogliato. la giovane promessa sposa, scoprendo che il suo primo amore è tornato dal servizio militare in Russia – l’esercito sovietico è una presenza a sua volta di sfondo, ma minacciosa e inquietante, nel film – gli fa visita prima di palesarsi in chiesa. Mentre la moglie di Istvan, lontana da qualsiasi atmosfera festosa, si disinteressa delle nozze del figlio e giace a letto stordita da sostanze stupefacenti.

La riflessione sul passaggio del tempo, scandita in 1945 anche dal ritmo malinconico di una colonna sonora che ricorda una litania ebraica, sembra culminare nella dichiarazione di István: “Il passato è finito”. Ma con l’arrivo dei due misteriosi visitatori, Török mostra come al contrario sia testardamente tornato nelle vite di tutti i protagonisti della vicenda, attanagliando i conti del presente ai crimini di ieri. Anche per questo il film ha fatto il giro, e con molti apprezzamenti, di molti festival, da Berlino a Gerusalemme, da Ghent a Budapest.

1945, di Ferenc Török con Péter Rudolf, Bence Tasnàdi, Tamàs Szabò Kimmel, Dòra Sztarenki, Jòsef Szarvas.